ISRAELE – A lezione di arabo con Avi

Siamo a Baqa al-Gharbiyye, cittadina araba israeliana del distretto di Haifa che si affaccia sulla Cisgiordania. Per la precisione siamo dentro un’aula dell’Al-Qasemi College, istituto di formazione per insegnanti in Studi islamici. Ogni lezione inizia con l’appello e la lettura di nomi arabi scritti in ebraico e questo crea difficoltà, almeno all’inizio, ai docenti nell’identificarli correttamente. I nomi non sono vocalizzati per cui possono essere letti in diversi modi. Il professore prova a interpretare: Shilav? Shulav? Dai banchi una studentessa – la stragrande maggioranza di chi frequenta il college sono giovani donne – corregge il docente: «Laa! No! Avi… Avi, professore, Avi Shalev, Hada Yehudi hada, è l’ebreo che studia con noi». Questa scena, racconta a Pagine Ebraiche Shalev, si è ripetuta diverse volte nei due anni in cui ha frequentato l’Al-Qasemi college. Era sempre l’unico ebreo nella stanza. E così si chiama il libro in cui ha raccontato la sua esperienza: The Only Jew in the Room. «Sono stato il primo ebreo ad aver mai fatto domanda di iscrizione al college. Dopo aver superato i test e un colloquio, sono stato accettato e ho studiato lì per un biennio, conseguendo un diploma di insegnamento».
Amici e parenti hanno considerato folle la sua scelta: cosa ci va a fare in un istituto islamico un ex militare dell’esercito israeliano? Un uomo che per 24 anni ha servito nell’intelligence di Tsahal e nell’amministrazione civile in Cisgiordania non si rende conto dei possibili pericoli? Anche Shalev si è posto queste domande, ma il suo amore per la lingua e cultura araba lo ha spinto a provare. Dopo il congedo nel 2016, ha conseguito un master in Studi islamici a Berlino. Tornato in patria, voleva conosce e capire meglio la società araba dall’interno. Ha provato a iscriversi all’Università palestinese Al-Quds, con sedi in Cisgiordania e Gerusalemme, ma «hanno rifiutato la mia richiesta perché sono israeliano ed ebreo».

L’unico ebreo nella stanza

All’istituto di Baqa al-Gharbiyye, ispirato al sufismo, invece la sua candidatura è stata accettata. E così è iniziata la sua immersione in un mondo parallelo. Tra le colleghe studentesse non sono mancate le domande: Cosa ci fai qua? Non hai paura? C’è chi lo considerava un infiltrato del Mossad o dello Shin Bet. La diffidenza non è mancata, ma in generale c’era più curiosità e apertura che ostilità. «Ho toccato con mano l’enorme distanza culturale tra ebrei e arabi, che si riflette nei valori e nei sistemi di pensiero. Noi israeliani, essendo parte di una società più occidentale, liberale e individualista, abbiamo un approccio completamente diverso rispetto a quello degli arabi, che appartengono a una società tradizionale, tribale e collettivista. Questo non è un giudizio di valore. Queste differenze sono profonde e vanno oltre le dispute territoriali o politiche. Per comprendere davvero la cultura araba, bisogna immergersi nei loro valori, tradizioni e narrazioni, un aspetto che spesso trascuriamo in Israele», spiega Shalev. Il rispetto ad esempio delle scelte della famiglia è per lo più indiscutibile, così come la partecipazione alla vita religiosa. Nel libro il fenomeno è descritto come una resistenza del mondo arabo-musulmano alla modernità. La tradizione è vissuta come inamovibile. Una contraddizione in un mondo che cambia velocemente. Ad esempio «nel college circa ogni dieci studentesse con hijab ce n’è una vestita all’occidentale». La modernità trova spazi, ma non con la stessa forza dirompente che in Occidente.

Barriere linguistiche

La frequentazione dell’Al-Qasemi college ha poi mostrato a Shalev un altro aspetto sorprendente. «Mi sono confrontato con la diglossia, ovvero la coesistenza di due varianti della stessa lingua: l’arabo parlato (dialettale) e l’arabo classico (formale). Molti arabi hanno difficoltà a leggere perché la loro lingua madre è un dialetto colloquiale, in Israele è il caso dell’arabo palestinese, mentre la forma scritta è l’arabo classico. Questa differenza crea barriere all’alfabetizzazione e all’accesso alla letteratura. È un fenomeno che influenza profondamente le capacità di lettura, scrittura e apprendimento delle persone, e, a mio avviso, condiziona anche il loro modo di pensare e affrontare le sfide intellettuali». Si tratta di un problema che investe tutto il mondo arabo, non solo la minoranza araba israeliana (un milione di persone, circa il 20% della popolazione del paese). «In Israele si pubblicano circa 9.000 libri all’anno in ebraico per circa 8 milioni di lettori. In confronto, in Egitto, con oltre 100 milioni di abitanti, vengono pubblicati solo 12.000 libri nuovi all’anno. Pro capite, il mondo arabo è molto indietro rispetto ai paesi occidentali in termini di produzione, traduzione e lettura di libri», spiega Shalev.

Dialetto palestinese e giudeo-arabo

Lui ha una sua proposta, almeno per Israele: «Credo che dovremmo concentrarci sull’insegnamento del dialetto palestinese, favorendo una comunicazione pratica. Gli studenti arabi in Israele dovrebbero poter scrivere esami e temi nel loro dialetto parlato, anziché in arabo classico. Questo ridurrebbe il divario tra la lingua parlata e i requisiti accademici, migliorando alfabetizzazione e rendimento». Per gli ebrei che imparano l’arabo, invece il suo suggerimento è «di abbandonare del tutto l’arabo classico e concentrarsi sul dialetto palestinese. Farlo inoltre usando i caratteri ebraici del giudeo-arabo che può essere un ponte pratico e culturale. Non dimentichiamo l’esempio di Maimonide, che la usava come lingua. È un modo per favorire la comunicazione e la comprensione reciproca».
Oggi Shalev è un grande sostenitore dell’Al-Qasemi college, che vorrebbe maggiormente integrato all’interno del sistema educativo israeliano. Per lui i due anni di frequentazione sono stati la dimostrazione di come gli ebrei israeliani non capiscano veramente i loro concittadini arabi e i vicini palestinesi.

Una lingua per capirsi

«E loro non capiscono noi. Questo divario culturale ed emotivo ha conseguenze enormi, come dimostrato dall’attacco del 7 ottobre. Nonostante la nostra avanzata tecnologia e i nostri servizi di intelligence, siamo stati completamente colti di sorpresa. Ci affidiamo troppo alla tecnologia e troppo poco alla comprensione culturale. Dobbiamo impegnarci di più per capire l’identità araba, le loro tradizioni e il loro modo di pensare, non per giudicarli, ma per costruire un dialogo reale. Il mio libro», conclude Shalev, «cerca di raccontare questa distanza culturale e di invitare il lettore a vedere il mondo dalla prospettiva di un altro popolo. Solo così possiamo sperare di affrontare le sfide future, sia in Israele che altrove».

Daniel Reichel