CINEMA – Da Buchenwald a New York, premiata la pellicola di Brady Corbet
László Tóth è un architetto ebreo ungherese. Si è formato nelle scuole della Bauhaus e sembra avere davanti a sé una carriera promettente, quando la Shoah ne stravolge la vita. Sopravvissuto alla deportazione a Buchenwald, Tóth cerca di ricostruirsi una vita negli Stati Uniti, facendo i conti con la povertà, con il proprio trauma e con l’ostilità di una società americana non immune all’antisemitismo.
Tóth è una figura inventata, anche se ispirata a persone reali, ed è il protagonista del pluripremiato film del regista Brady Corbet The Brutalist. La pellicola ha conquistato tre riconoscimenti agli ultimi Golden Globes: miglior film drammatico, miglior regia e miglior attore protagonista (Adrien Brody nelle vesti di László Tóth).
In diverse interviste Corbet, che ha co-scritto la sceneggiatura con la compagna Mona Fastvold, ha spiegato di aver voluto fare un film «non sull’ebraismo», ma piuttosto «sull’architettura come simbolo». In particolare, ha dichiarato di essere rimasto affascinato dal brutalismo, un movimento architettonico di metà Novecento che ha suscitato molto dibattito, privilegiando le grandi superfici ruvide e l’esposizione del cemento grezzo. «Perché il brutalismo? Perché i governi di tutto il mondo hanno ordinato la distruzione di questi edifici subito dopo aver preso il potere», ha raccontato il regista a Rolling Stone. Per lui, quegli edifici distrutti rappresentano una metafora efficace di «gruppi di persone indesiderate che un tempo avevano raggiunto un certo grado di importanza sociale. In breve», ha spiegato, «tante persone lo odiavano».
Un riferimento anche al mondo ebraico. Se il film non è sull’ebraismo, il contesto ebraico è però centrale nei 215 minuti di pellicola: c’è la Shoah, l’immigrazione, l’antisemitismo e i dibattiti sul sionismo. «László è una figura contraddittoria: fragile e forte, ferito ma determinato a costruire» e a lasciare un’impronta del suo lavoro, ha spiegato il regista, sottolineando il suo interesse per il ruolo dell’arte nel definire la memoria collettiva.
Un tema richiamato anche dall’architetto Daniel Libeskind, che sul sito The Forward si è chiesto: «Che cosa significa veramente il nome The Brutalist? Vuol dire che la brutalità del mondo richiede di essere contrastata dalla luce della ragione? Oppure la storia brutale del XX secolo, con i suoi regimi totalitari e i suoi campi di concentramento, ha dato vita a forme che simboleggiano la resistenza all’autorità?».
Tóth nel film affronta una serie di sfide, tra cui la manipolazione del suo lavoro da parte di clienti potenti e la perdita del controllo creativo, che riflettono le tensioni reali dell’architettura contemporanea. La brutalità del titolo non è solo stilistica, spiega Libeskind, ma un simbolo delle lotte esistenziali e culturali.
Il film, sottolinea l’architetto ideatore del Museo Ebraico di Berlino, esplora anche il significato dell’immigrazione e della perdita di identità. La scena iniziale, in cui Tóth vede la Statua della Libertà dal ponte di una nave, rappresenta il contrasto tra le speranze di un nuovo inizio e le dure realtà della vita da immigrato. «Nulla», scrive Libeskind, «simboleggia le prove e le speranze dell’immigrato meglio della scena del film in cui il disoccupato, demoralizzato e sofferente László Tóth sta scavando un grande cumulo di carbone con una pala».
Attraverso il carbone, simbolo sia della fatica fisica sia dell’atto creativo, The Brutalist mostra come le stesse materie possono riflettere gli estremi della condizione umana.
d.r.