MUSICA – Arthur Briggs che veniva dai Caraibi e i bisonti di Altamira
Nel giugno 1940, nella dismessa Grande Caserne di Saint-Denis presso Parigi, il Reich aprì un ilag (campo di internamento) denominato Camp des Internés Britanniques per civili britannici e americani, sebbene gli Stati Uniti non fossero ancora entrati in conflitto con i Paesi dell’Asse; il campo godeva di buona assistenza da parte della Croce Rossa ed era ricco di attività teatrali e musicali, si costituì un’orchestra classica di 16 elementi diretta dal direttore d’orchestra, compositore e arrangiatore britannico Tom Waltham per la quale il pianista britannico Hedley Heaton provvide a ricavare gli arrangiamenti orchestrali.
Nel 1931 il trombettista jazz e direttore d’orchestra statunitense afroamericano di origine caraibica Arthur Briggs si spostò da Berlino a Parigi dove lavorò con Freddy Johnson, Coleman Hawkins e Django Reinhardt; allo scoppio della guerra Briggs, dotato di passaporto britannico, fu internato presso lo SS Polizeihaftlager di Compiègne ma il 17 ottobre 1940, grazie all’interessamento di Tom Waltham presso l’autorità tedesca, fu trasferito a Saint-Denis.
Dato il divieto di eseguire jazz, Briggs suonava repertorio classico nell’orchestra di Waltham; con altri due artisti di colore internati a Saint-Denis, il nigeriano Gay Bafunke Martins di Lagos e Owen Macauley, Briggs creò persino un meraviglioso trio vocale.
Agli inizi del 1941 Briggs, sebbene afroamericano, fu costretto a suonare dinanzi al comandante delle truppe di occupazione tedesca in Francia generale Otto von Stülpnagel; eseguì la Quinta Sinfonia di Beethoven in un incredibile arrangiamento virtuosistico per tromba al punto che l’ufficiale tedesco si alzò per andare a elogiare personalmente Briggs: «Mi congratulo con te. Non avrei mai pensato che fosse possibile eseguire Beethoven così ma l’ho sentito io stesso», Briggs rispose in tedesco dandogli del tu «Es gibt viel Sachen die man nicht kennen (Ci sono molte cose che non sai)».
Tale insolenza poteva costare la vita a Briggs e tuttavia Stülpnagel rispose in inglese «Hai perfettamente ragione. Non dimenticherò mai questa serata» e Briggs di rimando, questa volta in inglese: «Hai assolutamente ragione. Non dimenticherò mai questa serata».
Per la cronaca, dopo la liberazione il generale von Stülpnagel fu catturato dai francesi e rinchiuso nel penitenziario di Cherche-Midi dove si tolse la vita il 6 febbraio 1948.
L’insurrezione di Varsavia del 1944 vide la partecipazione di tedeschi antifascisti, scozzesi, americani, sovietici e combattenti di altre nazionalità a fianco dei paramilitari polacchi della Armia Krajowa; tra di essi il musicista jazz nigeriano August Agbola O’Browne, per tutti «Alì», immigrato combattente in prima fila contro l’esercito più forte del mondo, quello tedesco.
Alì era africano, musicista e genio del jazz come Briggs, Martins e tanti altri. La Storia assomiglia a un libro da leggersi al modo ebraico ossia dall’ultima pagina alla prima e, dalla musica alla difesa della dignità, ciò che sembra la fine è esattamente l’inizio.
Il canto blues creato nelle piantagioni di cotone statunitensi durante il periodo della schiavitù non è soltanto la ricreazione in chiave concentrazionaria del millenario Canto della Terra sgorgato dalle prime fonti antropologiche dell’Africa subsahariana; esso è altresì la matrice del gospel e del jazz. Tuttora, l’uso imprescindibile di percussioni o del battito ritmico delle mani – tanto in una jazz session quanto nel canto corale di una chiesa evangelica americana – contiene la memoria ancestrale del tamburo, nobile africanità del tronco ligneo percosso durante le ore notturne con cadenza simile a telegrafo che trasmetteva in un primordiale alfabeto Morse da un villaggio della Guinea a una piantagione del South Carolina andata e ritorno.
Dove si lotta per la libertà c’è sempre un musicista jazz; in ghetti e lager gli ebrei suonavano jazz a dispetto di ogni divieto perché, se sei ebreo come i jazzisti Boruch Szymon Kataszek (foto) o Jakub Kagan (morti entrambi nel Ghetto di Varsavia), significa che dentro di te anche tu sei afro. Nel collasso del tempo concentrazionario, lager e gulag divennero fabbrica di sogni, industrie di arte e scienza capaci di riavviare l’orologio della vita dell’intelletto, icone di totale fluidità come il jazz; furono scritti canovacci di opere che durano due giorni, opere in più atti con poderose scenografie, gigantesche cantate per narratore, solisti, coro e orchestra.
Nella maggior parte dei lager si applicava ogni genere di divieto, dall’avvicinarsi ai settori off limits ad andare ai bagni; soltanto la musica era ovunque e comunque consentita perché essa è incontrollabile per natura e ha molte più probabilità di sopravvivere persino della vita umana.
L’arte non si sviluppa mai a valle bensì a monte di una civiltà; essa è stata una delle prime conquiste dell’uomo contestualmente alla capacità di arare e seminare, procurarsi il cibo e cuocerlo.
Chi dipinse sulla roccia viva di Altamira (Spagna) raffigurando bisonti e altri mammiferi cacciati dall’uomo, impastando con leonardesca maestria ocra e altre polveri colorate, stava facendo arte; la musica non è un’imitazione della vita ma è la vita stessa capovolta, con le radici dell’albero piantate in cielo e i rami che penetrano in profondità nel terreno.
Che sia stata creata durante il Primo Tempio di Gerusalemme o nell’età barocca o in pieno Romanticismo o in un campo di concentramento, la dimensione temporale della musica è il futuro.
La musica scritta in ghetti, lager e gulag è il più grande bene immateriale del mondo a venire.
Francesco Lotoro
(Nell’immagine in alto i compositori Szymon Kataszek e Zygmunt Karasiński – a destra – mentre compongono al pianoforte, 1930-1935 – Archivio nazionale polacco)