FIRENZE – Israele e la sfida della resilienza: l’indagine della Tel Aviv University

La violenza nella società israeliana, la situazione politica in generale, una guerra con l’Iran, la reputazione globale del paese, una guerra con Gaza, una guerra con il Libano, la minaccia nucleare iraniana, l’instabilità economica, problemi di salute. Quando l’Università di Tel Aviv ha rivolto la domanda «cosa vi spaventa di più» a un campione di residenti del Negev occidentale i timori espressi, in una classifica dal più grande al più piccolo, sono stati questi. Per gli abitanti della regione confinante con Gaza, quindi, le questioni interne alla società rappresentano un motivo di angoscia maggiore rispetto al conflitto con Hamas cui sono comunque i cittadini più esposti.
Il dato in apparenza sorprendente è stato presentato nel corso della seconda giornata di lavori del workshop “Affrontare l’antisemitismo. Creare la resilienza” organizzato a Firenze dall’ateneo israeliano. Durante una relazione intitolata “Unyelding spirit: resilience in the shadows of Israel-Hamas war”, Bruria Adini, a capo del dipartimento specializzato in gestione dell’emergenze e dei disastri della facoltà di medicina, ha tastato il polso alla “resilienza” israeliana attraverso un’indagine svolta a livello nazionale e con particolare attenzione agli israeliani più vulnerabili alle sfide post-7 ottobre: gli sfollati del sud e quelli del nord, minacciati dal fuoco di Hezbollah.

La doppia resilienza

Uno dei primi aspetti sotto esame è stata la resilienza nella sua duplice declinazione, individuale e collettiva. Secondo l’indagine della Tel Aviv University, con l’inizio della guerra la resilienza della collettività israeliana ha avuto un picco ed è poi progressivamente declinata fino al dicembre del 2024, quando ha toccato il punto più basso finora registrato. La tendenza della resilienza individuale è stata al contrario una crescita quasi costante, fino all’attuale stabilizzazione. La società israeliana resta in ogni caso una società resiliente, tra le più resilienti in assoluto del pianeta. E le ragioni sono in una gamma di fattori, ha spiegato Adini. Tra gli altri l’esistenza di un avversario comune «che unisce e rafforza la propria identità» e il «forte senso di solidarietà, di patriottismo e coesione sociale».
Per Adini, “comprendere” la resilienza, prevederne gli sviluppi, non deve interessare i soli specialisti. In questo senso ha auspicato una maggiore consapevolezza della classe politica sull’importanza di “padroneggiare” l’argomento, per venire incontro ai bisogni della popolazione in modo più efficace. Tra gli elementi che “fanno resilienza” citati, l’esperta ha posto al vertice la speranza, seguito dal senso di comunità, dalla fiducia o meno nelle scelte del governo e dalla religiosità. Mai dimenticare comunque che la resilienza «fluttua sia in tempi di guerra sia in circostanze più ordinarie». Il suo monitoraggio deve essere quindi progressivo, costante.
Nel corso della relazione, Adini ha messo a confronto la resilienza israeliana con quella ucraina. Stando ai numeri, la seconda è maggiore della prima, perché negli israeliani prevale comunque il pensiero che, qualunque sia la minaccia, anche la più estrema, «alla fine ne verremo a capo». Diverso è il discorso per gli ucraini, che avvertono per il loro paese «un rischio esistenziale» nell’attacco sferrato quasi tre anni fa dalla Russia. E quindi, nella loro guerra di sopravvivenza, si sono coesi in modo maggiore rispetto agli israeliani. E hanno più fiducia nelle loro istituzioni.

a.s.