LA POLEMICA – Emanuele Calò: la sfida che non lo era
Su un quotidiano ho appreso che, secondo un editore di giustificato prestigio, una sua altrettanto valida autrice avrebbe sfidato la sua stessa comunità. Poiché il riferimento – ma potrei sbagliare – riguarderebbe le comunità ebraiche, ammetto di non essere sorpreso perché, per tutti noi, nulla è meno evidente di ciò che è palese. Una bella espressione palindroma, poiché nulla è meno palese delle cose evidenti. Mi sento quindi moralmente obbligato a unirmi alla ciurma di Jacques II de Chabannes, Monsieur de la Palice, quando disse di lui che “se non fosse morto, sarebbe ancora vivo” (ma in realtà vi era stato un errore di trascrizione: “en vie”, al posto di “envie”) per dire che le Comunità ebraiche, non essendo dei partiti politici, non sono interlocutori aventi delle posizioni che vadano oltre il contrasto al pregiudizio antiebraico, in tutte le sue forme. Un poco come diceva Hans Kelsen: come la persona fisica non è un uomo, la persona giuridica non è un superuomo. Sarebbe, poi, stimolante, capire in cosa consista la sfida. Avevo letto della necessità di esercitare pressioni internazionali su Israele, ma mi viene in mente l’espressione “it takes two to tango”; poiché Israele si è ritirata unilateralmente da Gaza, forse il metodo non è così valido. Da bambino mi sono invaghito della maestra d’asilo, ma ho sempre covato il pensiero che fosse di diverso parere.
Quanto ai protagonisti della cosiddetta sfida, direi che non è possibile dibattere in materia politica con una Comunità, perché, ai sensi dell’articolo 3 dello Statuto dell’Unione delle Comunità Ebraiche, sarebbe un atto ultra vires, vale a dire, al di là dei poteri. Anche a prescindere da ciò, per escludere l’esistenza di una posizione politica, basterebbe considerare che in seno alle Comunità ebraiche vi è un caleidoscopio di tutte le opinioni possibile in ogni campo dell’attività umana spirituale e materiale. Certamente, l’illustre editore può aver pensato a evocare un’immagine di anticonformismo o di innovazione oppure, in senso buono, di trasgressione. Sennonché, le sfide culturali e ideologiche sono una costante dell’ebraismo e non sono sorte oggi. Non vorrei che, in buona fede, si considerasse che gli ebrei siano un blocco monolitico, tranne qualche sporadica presenza di personalità particolarmente indipendenti: gli ebrei sono uguali ai non ebrei.
Poiché in questo caso – correggetemi se sbaglio – si trattava di politica internazionale, chi sarebbe lo sfidante e chi lo sfidato? Se si trattasse, poi, di dibattere, sarebbe opportuno coinvolgere i centri di cultura delle Comunità nei dibattiti: perché non farlo? Si consideri che, visto che di sfida si parla (beninteso, una sfida amichevole e virtuosa) i partecipanti sarebbero tutto, fuorché dei portavoce di posizioni che una Comunità non può avere (un iscritto liberale non potrebbe permettere che un Presidente si dichiarasse ufficialmente keynesiano oppure un iscritto popperiano non potrebbe permettere che un Presidente si dichiarasse ufficialmente storicista) e se una Comunità ebraica ci ospitasse, meglio ancora. Il principio sarebbe: tu dirai quel che pensi e io replicherò; anziché censurare (nelle università ogni tanto si vuole vietare a qualcuno di parlare) si dovrebbe dar forma a un modulo italiano di counterspeech. Per esempio, penso che l’Osservatorio Enzo Sereni sarebbe lietissimo di dibattere con gli autori degli stimolanti volumi pubblicati da questo prestigioso editore. Il quale, se intende il termine “sfida” come un invito al dibattito, sarà il benvenuto. Mi consentirete un pensiero tutto mio: oggi giorno non ci vuole coraggio ad andare contro Israele, ci vuole coraggio per difenderlo; tuttavia, ambedue dobbiamo avere il coraggio di dibattere, ammettendo democraticamente che le proprie idee potrebbero non prevalere. Tutto ciò si chiama accettazione dell’altro e si chiama, pure, amore del confronto libero e democratico. Diamogli un seguito.
Emanuele Calò