L’INCONTRO – Dialoghi e provocazioni, tra Gerusalemme e Teheran

Sabahi: In Iran il regime ha ancora uno “zoccolo duro” di consenso

Farian Sabahi ha doppia cittadinanza: italiana e iraniana. Anche Miriam Camerini ha doppia cittadinanza: italiana e israeliana. Mentre la prima è ricercatrice senior in Storia contemporanea presso l’Università dell’Insubria, la seconda è una regista e autrice teatrale impegnata nella promozione della cultura ebraica. Domani si incontreranno a Trieste e a partire dalle 18 animeranno al Savoia Excelsior Palace Hotel l’evento “Trieste-Gerusalemme-Teheran. Dia/loghi e pro/vocazioni di pace”, a cura dell’associazione Casa Alta. Tra Gerusalemme e Teheran molti sono gli intrecci. Sabahi li ha sviluppati, come regista, in tre cortometraggi: I bambini di Teheran (2018), sulla storia di alcuni piccoli ebrei polacchi accolti in Iran al tempo della Shoah. E ancora Out of place (2009) e Che ne facciamo di Teheran? (2008). C’è un filo conduttore, sottolinea: in tutti e tre i lavori i protagonisti sono cittadini israeliani di origine iraniana o con legami con l’Iran.
Sabahi è anche autrice tra gli altri del libro Storia dell’Iran 1890-2020, pubblicato nel 2020 dal Saggiatore, dove descrive un paese sospeso fra tradizione e modernità. Porta la sua firma anche il testo teatrale Noi donne di Teheran, dove parla di minoranze e condizione femminile.
Come noto, parte della gioventù iraniana contesta il regime con eroismo da molti anni. Ma, le chiediamo, quanto è davvero rappresentativa dei sentimenti del paese? «Non vi sono sondaggi sul dissenso interno alla Repubblica islamica», risponde Sabahi. «Di certo, buona parte dell’opinione pubblica iraniana dissente rispetto alla politica economica, alla corruzione diffusa all’interno del regime e dissente anche in merito ai finanziamenti elargiti in questi decenni ai palestinesi e alla Siria di Assad». Nel caso di Damasco, «il debito di Assad tra il 2011 e il 2024 è stimato tra i 30 e i 50 miliardi di dollari, che l’Iran non riavrà indietro». Nella Repubblica islamica vi sono in ogni caso ancora giovani «che si arruolano nei pasdaran» e donne «che trovano lavoro nella famigerata polizia morale». Da qui la persistenza di «uno zoccolo duro di consenso alimentato dal nazionalismo, uno dei tratti salienti dell’Iran».
Nazionalismo che rischia di far precipitare ancora di più la situazione in Medio Oriente, nonostante Israele «vanti una capacità militare ben superiore» e la leadership di Teheran sia consapevole di ciò. Per questo motivo, afferma Sabahi, i vertici della Repubblica islamica hanno cercato di evitare lo scontro diretto. In futuro, sostiene Sabahi, «molto dipenderà dalla guerra a Gaza e dalle decisioni del presidente statunitense Donald Trump». Ma anche da quelle che definisce «le provocazioni di Israele» e dalle azioni del cosiddetto Asse della Resistenza, non ultimi gli Huthi in Yemen, «che perseguono una loro agenda». Sabahi conferma l’impressione, diffusa tra gli analisti, «che Trump cerchi un accordo con l’Iran e, per farlo, debba dare qualcosa in cambio al premier israeliano Benjamin Netanyahu». Ed è forse qui, incalza, «che si giocano» il destino di Gaza, del progetto Riviera e dei suoi abitanti. Sullo sfondo la minaccia del nucleare. Secondo Sabahi, sarebbe stato meglio non uscire dall’accordo firmato nel 2015 a Vienna, perché il business faceva comunque circolare «persone e idee». Ciò detto, conclude, l’Occidente sia meno ipocrita. «Come ha ribadito Marjane Satrapi, autrice del fumetto Persepolis, non ha senso che i consolati dei paesi europei elargiscano visti ai figli dell’establishment della Repubblica islamica, che studiano e lavorano nelle capitali europee». La stessa disponibilità, denuncia, non c’è per tanti altri giovani.

a.s.