CINEMA – Shoah di Lanzmann 40 anni dopo alla Berlinale

Cinquecentosessantasei (566) minuti. Sono nove ore e 26 minuti. Tanto dura il monumentale Shoah di Claude Lanzmann (sopra, in una foto d’archivio), proiettato in versione integrale oggi alla Berlinale. Frutto di dodici anni di lavoro e uscita nel 1985, si tratta di un’opera che ha ridefinito il linguaggio cinematografico della memoria e della testimonianza imponendosi come centrale per la comprensione della Shoah. È una scelta forte anche quella compiuta dal Festival internazionale del Cinema di Berlino, che nell’80° anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau di riproporli quarant’anni dopo la sua presentazione in anteprima. E sempre alla Berlinale viene quest’anno proiettato in prima visione mondiale Je n’avais que le néant, in cui il regista Guillaume Ribot, in un omaggio a Lanzmann, analizza oltre 220 ore di filmati inediti sulla Shoah.
Va ricordato che il lungometraggio proiettato oggi è quanto di più lontano possa esserci dalla narrazione lineare o dalla ricostruzione storica convenzionale: è un racconto di pura testimonianza che si affida esclusivamente alle voci dei sopravvissuti, ma anche dei carnefici, e dei testimoni oculari.
E non vi compaiono immagini d’archivio per una precisa scelta etica. La Shoah, ha spiegato il regista, non è rappresentabile, e ogni tentativo di visualizzarla rischia di tradirne la radicale unicità. Shoah è viaggio nella Memoria tra luoghi e parole che diventano Storia mentre la macchina da presa indugia per lunghi minuti su paesaggi silenziosi, e vuoti. Sono Treblinka, Sobibor e Auschwitz-Birkenau, immersi in una quiete apparente che raggela. Assenza. Vuoto. Immagini capaci di evocare l’inspiegabile costringendo chi guarda a confrontarsi con l’orrore e con la sua insostenibile realtà. Le interviste sono il nucleo centrale del film e sono di una onestà che rasenta la ferocia: Lanzmann non si sottrae, estrarre dagli intervistati il racconto del passato è necessario, doloroso, inevitabile.
La visione, oggi, è un atto di resistenza contro l’oblio.