LA POLEMICA – Emanuele Calò: Le parole pesano

Il volume di Valentina Pisanty Antisemita. Una parola in ostaggio, Bompiani, 2025, è stato oggetto di due recensioni di segno diverso. Claudio Vercelli (Il Manifesto) scrive che detta opera: «è soprattutto il racconto di un congedo. Non da una categoria analitica tanto impegnativa quanto imprescindibile, rispetto alla quale si ritiene comunque di continuare ad essere convocati, sollecitati e quindi impegnati. Bensì nei riguardi delle sue molteplici manipolazioni. Politiche e culturali. Le quali demandano non al concreto immaginario antisemitico dell’oggi, altrimenti più che mai diffuso. Il vero fuoco, infatti, è semmai l’abuso del potere di interdizione. Un tale agire sta paradossalmente divenendo una sorta di piattaforma dalla quale disintegrare ogni spirito critico». Yasha Reibman (Il Foglio) scrive che «Antisemita scritto dalla professoressa Valentina Pisanty, semiologa all’Università di Bergamo, per le edizioni Bompiani, non è un saggio sull’antisemitismo, ma un manuale di istruzioni per poter dire 364 giorni all’anno che Israele è nazista e poi il 27 gennaio pretendere di essere sul palco a celebrare la Giornata della Memoria».
Non mi pronuncio su queste opposte opinioni, perché il volume è alquanto complesso. Per ora mi sembrerebbe che l’autrice consideri: a) che vi sia un uso strumentale della parola “antisemita” e b) che essere antisionista non significhi essere antisemita. Ammesso che abbia ben capito.
 Posso, soltanto, fare qualche breve commento ad alcune frasi del libro:
 –«…se si vuol chiamare guerra lo scontro asimmetrico fra un esercito regolare e una popolazione civile in balìa degli eventi». A mio modestissimo avviso (come avrebbe detto e stigmatizzato Walter Bigiavi), mi pare palese che lo scontro non sia fra un esercito regolare e la popolazione bensì con Hamas, un’entità qualificata come terroristica dall’Unione europea col Regolamento di Esecuzione (UE) 2025/206 del Consiglio del 30 gennaio 2025 che attua l’articolo 2, paragrafo 3, del regolamento (CE) n. 2580/2001 relativo a misure restrittive specifiche, contro determinate persone e entità, destinate a combattere il terrorismo, un’organizzazione non così tapina, se ha costruito 600 km. di tunnel;
– «I governi israeliani si autoproclamano portavoce ufficiali delle vittime dell’Olocausto, discendenti compresi». Se lo facessero, sarebbero un caso poco felice, ma sarebbe stato comunque opportuno dimostrarlo con una citazione inserita in nota;
-«..negli anni duemila si fa largo il progetto di mettere per iscritto l’equazione antisionismo = antisemitismo» e si richiamano (sempre se avessi ben capito) le destre israeliane. Sennonché, lo fece il 27 settembre 2016, il compianto Rabbino Lord Jonathan Sacks, in un discorso al Parlamento europeo. Sacks era una personalità unanimemente apprezzata, e non aveva nulla a che fare con qualsivoglia estremismo. Non solo Sacks: Michael Walzer (non l’ultimo arrivato, non un esponente degli appestati governi di destra di Israele) aveva spiegato che “Le politiche di Israele non hanno alcuno rapporto col sionismo o l’antisionismo, sono politiche governative, ma i governi governano, non sono lo Stato. Soltanto nei riguardi di Israele, quando se ne critica la politica si discute la legittimità dello Stato”. Questo andrebbe spiegato ai lettori;
– «L’ulteriore spallata consiste nel richiedere che la nuova definizione venga incorporata nei testi delle leggi, dei regolamenti universitari, dei codici di condotta dei partiti». Poiché, se non erro, il riferimento è alla definizione IHRA di antisemitismo, sarebbe stato essenziale menzionare che è una definizione non vincolante e che si tratta di soft law, perché ciò cambia tutto il discorso;
– La legge tedesca sulla cittadinanza imporrebbe «di dichiarare la propria fede nel diritto d’esistenza di Israele». Non vedo cosa ci sarebbe di male, ma a me risulta che tale requisito si trovi soltanto in una legge di un Lander, e non nella legge nazionale. In ogni caso, non penso si tratti di ‘fede’, bensì del riconoscimento del diritto degli ebrei a uno Stato. Si sostiene, nel libro, che alcuni popoli non hanno uno Stato, ma nel caso degli ebrei, poiché nessuno ha subito persecuzioni così gravi e protratte, e visto che lo Stato lo avevano, penso vi sia poco da discutere. Fra l’altro, lo Stato esiste dal 1948, ed è una storia di successo. Non si tratta di crearlo, ma di mantenerlo;
–  …«La definizione IHRA ha acquisito il potere di mettere a repentagliole carriere accademiche di coloro che sostengono posizioni radicalmente anti israeliane». A me sembra che nel nostro Paese accada l’esatto contrario e, in ogni caso, visto che si tratta di una definizione che nessuno conosce e che purtroppo è rimasta nel dimenticatoio, e meno che mai menzionata dai giuristi, temo che il rischio paventato esista soltanto per chi è pro-israeliano. Sul piano editoriale, poi, mi pare che non esistano libri pro-israeliani scritti da italiani, pubblicati dai grandi editori, ma sarei felice di essere contraddetto. Forse andava spiegato, come ho fatto nel mio libro (non citato) come mai l’editoria italiana sia ossessionata da ebrei e Israele: siamo sicuri che sia un dettaglio?;
– negli anni Ottanta ci sarebbe stato un «consolidamento della svolta a destra dei governi israeliani». Forse era un bene, visto che poco prima, nel 1979, fu un uomo di destra come Begin a fare pace con l’Egitto. Vorrei soggiungere che saranno (sono) di destra, ma sono partiti democratici in un’area in cui le democrazie non ci sono (e forse non sarebbe stato male ricordarlo). Visto che siamo italiani, potremmo pure ricordare come il Duce avesse esternato a quel nazista del Muftì di Gerusalemme il suo virulento antisionismo, già presente nella Dichiarazione sulla Razza del 1938 («Il Gran Consiglio del Fascismo non esclude la possibilità di concedere, anche per deviare la immigrazione ebraica dalla Palestina, una controllata immigrazione di ebrei europei in qualche zona dell’Etiopia»);
«vi sono antisionisti…che prendono atto dell’esistenza di quello stato come di un dato di fatto del quale non si può più prescindere»; al riguardo cita Marek Edelman, dicendo che era bundista. Forse sarebbe stato utile spiegare cosa fosse il Bund, perché non a caso, per via di quella posizione, il Bund è sparito;
– Nella guerra del Kippur «solo l’intervento degli Stati Uniti permise a Israele di organizzare una controffensiva riparatrice»; forse sarebbe stato opportuno descrivere il ruolo che ebbe l’URSS, perché altrimenti la vicenda risulterebbe indecifrabile;
– Quanto all’equiparazione di Israele col nazismo «da un punto di vista più tecnico, è difficile sostenere che l’analogia sia di per sé antisemita, trattandosi di un accostamento che è stato impiegato per stigmatizzare non solo Israele, ma anche innumerevoli altri stati…». Qui si tratta di una questione che avrebbe richiesto il richiamo di qualche monografia di Yehuda Bauer, alla cui luce si sarebbe capito perché la norma (che in questo caso non è nemmeno vincolante) non possa mai applicare lo stesso parametro a situazioni radicalmente diverse;
«Poniamo per ipotesi che un domani (per non parlare di oggi) il governo israeliano dovesse istituire pratiche di uccisione di massa per certi versi analoghe a quelle adottate dai nazisti», nel qual caso non si potrebbe applicare la norma che vieta tale equiparazione. Per ora, è Israele ad essere stata aggredita e non viceversa, visto che ciò che si discute riguarda la sua reazione anziché la sua azione. Poniamo però che, nell’ipotesi menzionata, Israele diventasse nazista, nel qual caso nessun giurista applicherebbe una definizione non vincolante, argomento sul quale rimando ai miei lavori di giurista.
L’autrice, però, concorda con la definizione IHRA di antisemitismo, per la parte che considera antisemita chi ritiene gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele. Se non erro (ma sarò lieto di essere contraddetto) dovremmo ringraziarla perché finalmente si dichiara che è antisemita chi attacca a vario titolo le Comunità ebraiche se non prendono su Israele le posizioni a loro gradite. Le Comunità, per Statuto, possono promuovere i contatti spirituali e culturali con Israele ma non hanno funzioni in materia politica; è comprensibile che intervengano a salvaguardia dell’esistenza fisica degli israeliani e giuridica dello Stato, ma non potendo essere a favore o meno di un governo, non possono essere coinvolte in soluzioni politiche.
Sennonché, nell’ultima pagina, sostiene che «Chiunque impieghi il termine antisemita nel senso imposto dalla definizione IHRA deve sapere in quale catena di prepotenze, non solo linguistiche, si sta collocando». Peccato che l’Unione europea abbia in ogni modo spinto perché fosse adottata. Poiché l’odio verso Israele è diventato patologico, non possiamo adottare una definizione che sdogani l’antisionismo come la JDA. A tal fine, bisognerebbe considerare che per parlare di sionismo dobbiamo definirlo; lo ha fatto molto bene il celeberrimo Michael Walzer (nella bibliografia del libro trovo Gad Lerner ma non Walzer): «Assumo che ‘Sionismo’ significhi la credenza nella legittima esistenza di uno Stato ebraico, null’altro (…) ciò che è sbagliato nell’antisionismo è l’antisionismo stesso, perché è indifferente che tu sia un antisemita oppure un filosemita o uno semiticamente indifferente, perché questa è una pessima politica»

Emanuele Calò