BERLINALE – “Bedrock”, scene di vita ad Oświęcim 80 anni dopo

«La parola “Bedrock” significa due cose: è sia un termine prettamente geologico, indica lo strato di roccia solida che si trova sotto a tutto il resto, ma sono anche le fondamenta. È uno dei vantaggi della mia vita in Canada, scherza, e dell’avere una produzione solo canadese: ho potuto scegliere una parola inglese e giocare sul suo doppio senso». Così la polacca Kinga Michalska spiega dal palco della Berlinale il titolo del suo ultimo documentario, di cui si è appena chiusa la prima mondiale. A dire il vero la parola “bedrock” ha un terzo significato, a cui è difficile non pensare guardando le scene che sul grande schermo raccontano il quotidiano dei polacchi che vivono nei luoghi della Shoah: significa anche “il punto più basso”. Impossibile non avere un certo livello di comprensione per coloro che vanno a lavorare a poca distanza dall’ingresso di Auschwitz e si devono fermare in continuazione perché «i turisti si fermano a fare fotografie senza neppure rendersi conto che sono in mezzo alla strada», come commentano due giovani che nelle scene successive si trovano a scherzare sulle reazioni di chi chiede loro dove vivono e si sente rispondere «Oświęcim». Ma il sommarsi delle immagini è straniante: il documentario si apre su un grande cantiere, la costruzione di un’autostrada va avanti mentre il rappresentante di un gruppo ebraico locale spiega che lì sono sepolte alcune migliaia di persone. Intanto gli operai si chiedono come si sentiranno coloro che magari l’anno successivo andranno a pregare sul luogo dove sono morti membri della loro famiglia e si troveranno davanti all’autostrada, aperta. Ma compare anche un ospedale che era parte di un campo di concentramento, e una bimba che abita poco distante si avvicina alle finestre per salutare un amico rinchiuso nel reparto psichiatrico. In un’altra ala dello stesso edificio vivono diverse persone che senza farsi troppi problemi raccontano, affacciate a una finestra, che lì vicino operava Mengele. Una famiglia cattolica, molto religiosa discute – litigando – della complicità polacca in un pogrom di cui la nonna ha memoria mentre un altro membro di famiglia attribuisce tutta la responsabilità ai tedeschi e rifiuta anche l’utilizzo della parola pogrom. Intanto i tifosi di calcio della squadra di Birkenau festeggiano la vittoria. Sono tutte scene di vita quotidiana, una normalità che si sovrappone a luoghi in cui l’eco del passato è fortissimo. Spiega Michalska che la sua scelta è stata di mettersi semplicemente all’ascolto: «Abbiamo cercato persone che appartengono a generazioni differenti, che sono parte di gruppi sia sociali che religiosi diversi, con l’obiettivo di raccontare, senza intervenire, quale possa essere il vissuto di chi si trova a muoversi in luoghi così intrisi di storia». Sua nonna viene da Vilnius, racconta, e le ha trasmesso un senso fortissimo di assenza: «Persone differenti hanno storie differenti, è ovvio, ma tutti coloro che si muovono nei luoghi della Shoah devono trovare una loro maniera di convivere con il passato. Può anche essere una rimozione, il rifiuto di prendere in considerazione qualcosa di così grande e doloroso, ma una cosa resta indiscutibile: il passato esiste». Parlare di Shoah raccontando luoghi in cui, spesso nulla è rimasto pare impossibile. Anche nel silenzio il disagio in sala è palpabile. Un bosco è spesso tutto ciò che si vede scorrere sullo schermo ma, ripete Michalska: «La terra ricorda. I luoghi sanno».
a.t.
(Nell’immagine: Kinga Michalska sul palco della Berlinale)