SCAFFALE – Polemico, bioetico e innovativo ma ebraico e democratico

La rapida e inarrestabile accelerazione delle innovazioni scientifiche, com’è noto, con l’aprire sempre nuove possibilità di intervento sul corso della vita umana e sui rapporti tra uomo e natura, apre anche altrettante domande sugli eventuali limiti da porre all’uso della tecnica, sulla necessità di fissare dei paletti. La ricerca cosiddetta bioetica viene investita, giorno dopo giorno, da sempre nuove domande, e pone tutti di fronte a questioni drammatiche, innanzi alle quali appare davvero arduo offrire risposte univoche, dal momento che ogni soluzione è destinata non solo a sollevare critiche e obiezioni, ma anche ad apparire, in breve tempo, sorpassata.
Come mai prima nelle epoche passate, appare difficile stabilire cosa sia bene e cosa male, cosa lecito e cosa illecito, e non solo per le diverse convinzioni ideologiche o religiose, ma anche perché le conseguenze di una data scelta spesso si manifestano solo in un momento successivo. Si saluta ovviamente con piacere, per esempio, una scoperta nel campo della medicina che possa aiutare a curare una data malattia. Ma ci si può accorgere, dopo, che quella cura, nell’allungare la durata della vita umana, allunga in realtà soprattutto la sofferenza e la malattia. Il numero dei malati in coma irreversibile aumenta in modo esponenziale nel mondo del benessere, e non si può non guardare con inquietudine a un futuro in cui milioni di persone saranno destinate a vivere una vita da “morti viventi”, con enormi costi per la società e dubbio beneficio per i malati. In Africa le morti in età neonatale, per fortuna, sono molto diminuite, grazie all’estensione delle cure mediche, ma sono invece aumentati, purtroppo, i decessi per denutrizione in età infantile, per mancanza di cibo, acqua, igiene. Cosa è peggio, cosa è meglio? Troppo facile, troppo semplice, pretendere tutto: vita, salute, benessere per tutti.Come già ho avuto modo di argomentare, il pensiero ebraico, su questo terreno, si rivela una inesauribile miniera di spunti e sollecitazioni, per svariate ragioni.
Innanzitutto, per il suo essere legato a una tradizione fondata non su un sistema di diritti, ma piuttosto di doveri. La civiltà dei diritti, infatti, è oggi, dovunque, in affanno, dal momento che è sempre più difficile stabilire, nelle varie situazioni, chi possa o non possa essere considerato titolare di un diritto. Il diritto richiede infatti un soggetto che lo reclami, o qualcuno che lo faccia per lui. E ci sarà sempre discussione su chi possa o non possa rivendicarlo, e a favore di chi. Un sistema di doveri, invece – anche se, ovviamente, può essere accettato o respinto -, non solleva di tali domande preliminari.
Poi, per il suo inscindibile legame con la controversialità, la domanda, la contraddizione. La disputa rabbinica (machlòket) rappresenta una continua, inesauribile interrogazione sul senso del testo letterale della norma, la cui interpretazione non potrà mai avere fine. Solo la parola divina è definitiva, ma, riguardo alla decifrazione del suo significato, non potrà mai esserci un’ultima parola umana. Né esiterà mai un’istituzione umana, laica o religiosa, in grado di imporla.
Ancora, per il suo eterno cercare il limite dell’azione umana, quei confini che non devono essere valicati. Su quali siano non ci sarà mai concordia, ma, in ogni caso, occorre cercarli. La Legge divina chiede di mettere in atto dei comportamenti che “facciano siepe” intorno ad essa, che la proteggano. È relativamente facile, per chi provenga da tale tradizione, rifiutare l’idea di un Dio legislatore, ma è molto più difficile staccarsi da questa esigenza della ricerca del limite. Anche un ateo ne avverte il bisogno, la libertà assoluta è estranea all’ebraismo.
E si potrebbe continuare.
Una dimostrazione lampante di tale fecondità viene offerta da un libro di grande interesse, scritto da una eccellente studiosa dei rapporti tra diritto e religione, quale Enrica Martinelli: Procreazione e biotecnologie nel pensiero ebraico e nel sistema giuridico israeliano (Giappichelli, Torino, pp. 238, euro 30).
Il volume offre una disamina articolata e approfondita di una molteplicità di questioni, dalle biotecnologie riproduttive alla maternità surrogata, dal valore della procreazione alla sterilità, dall’inseminazione artificiale allo status degli embrioni e a tanto altro ancora.
L’autrice prende in esame diverse questioni bioetiche discusse e decise all’interno del complesso sistema giuridico dello Stato d’Israele, nei tribunali, nella Knesset, nelle Commissioni parlamentari, nella Corte Suprema. E si sofferma anche, con grande lucidità e interesse, sulla peculiare natura dello Stato, un Paese laico che attribuisce però un ruolo particolare alla tradizione religiosa e alle autorità rabbiniche, a cui sono deputate alcune materie come il matrimonio e il divorzio. Dire che tutto fili liscio, e che non ci siano polemiche, ovviamente, sarebbe falso. Ma dal libro emerge anche un quadro di grande vitalità del sistema israeliano, l’idea di una litigiosità feconda e creativa, da cui tutte le parti, forse, possono trarre giovamento.
Di particolare importanza le riflessioni dell’autrice riguardo alla natura di Israele – come sancito dalle due Leggi Fondamentali su “Dignità e Libertà dell’uomo” e “Libertà di impiego”, del 1992 e 1994 (promotrici, secondo il grande giurista Aharon Barak, già Presidente della Corte Suprema, di una “rivoluzione costituzionale”) – quale “Stato ebraico e democratico”.
Su cosa voglia dire “Stato ebraico” (espressione che traduce impropriamente il titolo del celebre libretto di Theodor Herzl, “Der Judenstaat”, che vuol dire “Lo Stato degli ebrei”, e non è la stessa cosa), com’è noto, c’è sempre stata accesa discussione. Il termine “democratico”, invece, sembrava, fino a ieri, di più facile comprensione. Oggi, anch’esso appare quanto mai oscuro. Lo Stato d’Israele sembra quindi “condannato” a essere legato a due valori ineliminabili, ma il cui significato è continuamente messo in discussione, così come è messa in discussione la loro conciliabilità, e l’ordine gerarchico tra i due. Quale, in caso di dubbio o conflitto, dovrebbe prevalere? l’ebraicità o la democrazia?
A mio modesto avviso, ogni risposta a una siffatta domanda sarebbe sbagliata e pericolosa, così come sbagliato e pericoloso sarebbe ogni tentativo di dare la prevalenza a uno dei due valori sull’altro. Ogni sbilanciamento rappresenterebbe un colpo alla stessa natura di Israele, che, pur tra mille difficoltà, dovrà restare per sempre tale: “ebraico e democratico”.
Francesco Lucrezi, storico