A TAVOLA – Da Roma al kibbutz, Cesare è chef

Al kibbutz Sasa e dintorni il pane di Cesare è un’istituzione. «Qui nel fine settimana in tanti lo aspettano». Il pane, spiega Cesare Funaro, «è arte e dedizione. A Sasa ne produciamo di diversi tipi, dalla baguette alla pita a quello integrale, con farine italiane». È un simbolo del lavoro della cucina del kibbutz, che Cesare guida da oltre dieci anni: il pane è preparato secondo gli insegnamenti di Funaro alla sua squadra. «Ne vado veramente orgoglioso», spiega lo chef nato a Roma. A Sasa, una manciata di chilometri dal confine con il Libano, Funaro ha trovato la sua dimensione. Un posto tranquillo, nel nord d’Israele, «dove poter fare vita nei campi». Unitosi al kibbutz nel 1983 grazie all’Hashomer Hatzair, il movimento giovanile ispirato al sionismo socialista, non se ne è più andato. Nemmeno durante l’ultimo anno di guerra con Hezbollah tra missili e allarmi quotidiani.
«Lavoro nella cucina del kibbutz da quasi quarant’anni. Da circa 13 ne ho le redini e amo quel che faccio. Dopo il 7 ottobre, per mesi ho dovuto dividere la divisa da chef con quella da soldato riservista ma a 60 anni vorresti non dover imbracciare fucile e giubbotto antiproiettile». Durante il conflitto lo chef e la sua squadra – 15 cuochi – non si sono fermati. «Abbiamo preparato centinaia di pasti, reinventando la logistica per far arrivare il cibo ai molti sfollati del kibbutz». Poi la firma della tregua. «Speriamo duri. Tiriamo un sospiro di sollievo», commenta.
La sua cucina sta tornando a pieno regime: 1.000-1.500 pasti al giorno. Alla carriera da chef Cesare è arrivato per caso. A 18 anni ha iniziato raccogliendo mele a Sasa. «Immaginavo una vita da agricoltore, ma poi ho scelto di fare il cuoco: volevo un mestiere da poter svolgere ovunque ». In più, sottolinea, il cibo ha un valore affettivo: rappresenta la famiglia, le radici, i ricordi. «Da ragazzo mi piaceva fare domande a mia madre menre cucinava, capire perché usava un ingrediente o un altro». I sapori di casa, sottolinea, li portiamo tutti con noi.
«Quando avevo appena iniziato a lavorare a Sasa, un giorno, senza preavviso, ho dovuto fare 400 porzioni di polpette di pollo. Ho cercato di riprodurre la ricetta di mia madre: sale, pepe, pan grattato, noce moscata. Alla fine del pasto una signora mi abbraccia e mi dice: “Sono tornata per un istante bambina ad Aleppo a mangiare le polpette di mia madre”». In tavola Funaro prova a portare un po’ diromanità. «Ma qui è impossibile fare il carciofo alla giudia per 1.000 persone. Però quando organizziamo feste o matrimoni, cerco di proporre qualcosa della tradizione italiana». «Ho fatto le scuole alberghiere a Haifa, poi molti corsi in Italia, soprattutto di pasticceria. In Israele sono diventato chef», che non significa solo cucinare. «È organizzare il lavoro, gestire le materie prime. In ordine e in un’atmosfera da grande famiglia, composta da arabi cristiani, musulmani, drusi. Siamo un bel mix». La politica resta fuori, entrano solo i sapori.
Daniel Reichel