SCAFFALE – Francesco Lucrezi: «Il popolo del torto»

«Non esiste un modo onorevole di uccidere, né un modo garbato di distruggere. Non c’è niente di buono nella guerra, eccetto la sua fine». Questa frase di Abramo Lincoln è scelta da Vincenzo Santo per aprire la sua prefazione al proprio libro Palestina tormentata. Tra torti e ragioni (Edizioni Artestampa, Modena, 2024, pp. 332, euro 22). «Sempre che – aggiunge l’autore – la guerra abbia una fine. Questo è il vero problema. Laddove, infatti, le guerre siano state “interrotte” prima che si sia avuto un chiaro risultato sul campo, con una pace di compromesso oppure con una delle due parti definitivamente sconfitta, l’effetto carsico del ritorno dell’odio e della rivalsa prende in ostaggio l’intera comunità internazionale e il suo modo di guardare agli avvenimenti».
Lo stesso titolo del libro di memorie di Primo Levi, La tregua (seguito di Se questo è un uomo), esprime in modo icastico l’idea di fondo che la guerra, nessuna guerra, possa mai conoscere una fine, ma soltanto delle «tregue», più o meno solide o precarie. Esistono, certo, i casi di conflitti che sfociano in una pace di compromesso (per esempio, quelli tra Francia e Inghilterra, Stati Uniti e Messico, Impero zarista e Giappone…), o in una definitiva sconfitta di una delle due parti (la mitica guerra di Troia, le guerre puniche, la Seconda Guerra Mondiale…), ma è sempre difficile escludere completamente che le violenze successive non abbiano mai nessun collegamento con quelle precedenti. «La guerra è sempre», si sente dire Primo Levi da un ex compagno di prigionia, nel corso del suo lungo e travagliato viaggio di ritorno verso casa. E quella frase gli sarebbe rimasta impressa nella memoria e nella coscienza, così come il suo braccio sarebbe rimasto per sempre segnato dal numero marchiatogli a fuoco dai suoi carcerieri.
Nel libro, Santo, Generale di Corpo d’Armata e Ufficiale dei Bersaglieri con alle spalle molti importanti incarichi di comando in ambito nazionale e Nato e in attività operative in Libano, nei Balcani e in Afghanistan, anche sulla base della sua diretta competenza in ambito militare, offre una puntuale ricostruzione delle intricate e dolorose vicende che segnano quasi un secolo di ininterrotto conflitto nella martoriata terra di Israele/Palestina. E mai come in questo caso, si può dire, la guerra è stata «sempre», e i rari e illusori periodi di apparente tranquillità (ma non c’è stato neanche un solo anno, probabilmente, tra il 1929 e oggi, in cui non sia stato versato del sangue in qualche attacco o attentato, militare o terroristico) non sono stati che delle fragili e precarie «tregue».
Come mai? L’autore cerca di affrontare l’arduo problema dell’attribuzione dei «torti» e delle «ragioni» di questa lunghissima, apparente interminabile scia di odio, lutto e dolore, e lo fa con ammirevole equilibrio, dimostrando concretamente di restare fedele al proposito dichiarato di non cedere alla logica della partigianeria e della “tifoseria”. Lascia parlare i fatti. Ma i fatti, quando non manipolati da un racconto distorto e fazioso, parlano chiaro. «I palestinesi sono oppressi? – chiede Santo – Certo che lo sono. Ma di questo dovrebbero ringraziare le loro élite, estremiste o moderate che siano. E ancora, hanno diritto a un loro stato? Certo che ce l’hanno, ma non a scapito della sicurezza degli israeliani».
«Intendiamoci – continua –, gli israeliani non hanno tutte le ragioni e forse anche qualche torto. Ma sicuramente i palestinesi non hanno solo ragione, se non quella che artatamente è stata loro attribuita e di cui i loro leader, estremisti e non, si sono fatti forti a scapito della realtà per mantenere il potere. Il loro destino non è ancora scritto ma, allo stato attuale, e dopo i fatti della macelleria a cielo aperto di cui alcuni di loro sono stati volgari esecutori il 7 ottobre e altri osservatori o commentatori festosi, vedo molto difficile che quell’idea dei ‘due stati’ possa trovare presto attuazione».
Parole, a mio modesto avviso, assolutamente da condividere, che rimandano però a una domanda essenziale. Santo giustamente vede il fondamento della forza delle violente, corrotte e ciniche leadership palestinesi (non solo quelle delle frange terroristiche, ma anche dei cosiddetti “moderati”, alle prime strettamente apparentati, e comunque mai chiaramente contrapposti, se non per motivi di mera rivalità) nella «ragione» che «artatamente è stata loro attribuita». Da chi? Ma è ovvio: da quasi tutti, sempre, dovunque e comunque.
I palestinesi, le «vittime per antonomasia», le «vittime al cubo», non «hanno ragione», come direbbe il Principe De Curtis, «a prescindere», «per natura». C’è chi nasce biondo o moro, e chi col torto o con la ragione. Cosa facciano o non facciano, secondo questa visione cieca e distorta, è del tutto ininfluente. Esattamente nello stesso modo in cui Israele ha torto quando ha torto, ma ha torto (anzi, ancora di più) quando ha ragione. Ha il torto, molto grave, di avere ragione, creando un inaccettabile ossimoro.
La domanda è la seguente, e la risposta appare tristemente semplice.
La «guerra eterna» in quella terra «tormentata» dipende anche da questa automatica, irrazionale, morbosa elezione dei palestinesi a «popolo della ragione», e da questa degradazione degli israeliani a «popolo del torto»? Risposta: assolutamente sì. E molti ne sono perfettamente consapevoli, vogliono che il tormento continui per sempre.

Francesco Lucrezi