OSTAGGI – Segev Kalfon e la panetteria ad Arad

Dopo anni passati a lavorare fianco a fianco al padre Kobi e al fratello maggiore Raz nella panetteria di famiglia, Segev Kalfon aveva deciso di prendere un’altra strada. A 26 anni si era messo a studiare finanza per trovare un lavoro in questo ambito. I genitori e il fratello non avevano nascosto il loro dissenso: sei un bravo lavoratore, la nostra panetteria BethLehem ad Arad è un’istituzione, perché lasciare? L’interrogativo ripetuto da Kobi e la moglie Galit al figlio. «Segev aveva affrontato la sfida con il suo solito entusiasmo», ha raccontato l’amico di una vita, Assaf Harush. I due sono cresciuti insieme a Dimona, città nel sud d’Israele, dove vive ancora tutta la famiglia Kalfon. Alla loro porta Harush ha bussato la sera del 7 ottobre 2023. Portava con sé una tragica notizia: «Ho visto Segev con i miei occhi venire rapito. Era vivo, non era ferito. I terroristi di Hamas l’hanno caricato su un pick-up e portato via».
I due amici erano andati insieme al Nova Festival di Re’im, ma Segev aveva evitato di dirlo alla famiglia per non far preoccupare la madre, contraria alle sue continue uscite notturne. Aveva detto di essere andato a Mitzpe Ramon, non alla festa a due passi dal confine con Gaza. «Siamo arrivati alle quattro del mattino al rave e abbiamo ballato a lungo. Segev, come sempre, era al centro della festa. È un ragazzo pieno di energia, divertente, pieno di vita», ha ricordato Harush, intervistato da ynet. Quando è iniziato l’attacco, i Kalfon hanno scoperto che il figlio non era ancora rientrato e sono iniziate le chiamate.
La madre Galit ricorda ogni dettaglio di quella mattina. Le telefonate, la voce di Segev che le confessava che sì era al Nova Festival, ma cercava di rassicurarla, il rumore di sottofondo, l’atmosfera sempre più tesa. «Mi ha detto che stavano tornando, che tutto andava bene», ha raccontato Galit ad Haaretz. «Poi ci ha mandato la posizione. Era esattamente dove non volevo che fosse». L’ultima chiamata si è interrotta alle 8:20. La sera, è stato Harush a portare la notizia: lui si era salvato per caso, nascosto a pochi passi da Segev, trascinato via dai terroristi.
Da allora, la famiglia vive in attesa e per un lungo periodo è rimasta all’ombra, senza partecipare a manifestazioni, senza rilasciare interviste. Galit ha smesso di lavorare e ha continui attacchi d’ansia, la figlia minore studia da casa per starle vicina. Il marito e il figlio maggiore mandano avanti la panetteria, dove un murale ritrae Regev sorridente accompagnato da una preghiera per il suo ritorno. «Non avrei mai immaginato di trovarmi a questo punto: 250 ostaggi israeliani tenuti prigionieri a Gaza? Ero convinta che lo stato non l’avrebbe mai permesso, che non avrebbe lasciato indietro nessuno. Non è stato così», ha affermato Galit all’emittente Kan. Segev, prigioniero da 558 giorni, è uno dei 24 ostaggi – su 59 ancora a Gaza –, ritenuti in vita. «Il mio appello ai nostri leader è chiaro: mio figlio è stato rapito sotto la loro responsabilità e loro hanno il compito di riportarlo a casa».
Circa due mesi fa, Ohad Ben Ami – uno degli ostaggi rilasciati nell’accordo di fine gennaio 2025 – ha contattato i Kalfon. Ha raccontato di aver condiviso parte della prigionia con Segev: parlavano, si sostenevano, facevano insieme il kiddush del venerdì sera. Ma ha anche raccontato le difficoltà e le violenze subite. Segev soffre fisicamente e psicologicamente, ha avuto episodi di dissociazione e perdita del senso della realtà.
Da quel racconto il padre Kobi ha intensificato la sua presenza alle cerimonie pubbliche, ha parlato con i leader del paese e all’estero. «Credo nel primo ministro, ma la storia lo giudicherà. Restituiscano subito mio figlio», ha affermato in un’intervista alla radio pubblica. La famiglia intera, ha aggiunto il fratello Raz, in questi 18 mesi si è trasformata in un team diplomatico improvvisato. «Ci siamo mossi in ogni direzione, non ci arrendiamo».
L’ex ostaggio Ben Ami ha riferito ai Kalfon di come in prigionia Segev abbia ripetutamente parlato dell’attività di famiglia. «Ha detto di voler riprendere, una volta tornato, a lavorare in panetteria», ha spiegato tra le lacrime la madre. «Nel suo stato, sapere che se lo ricorda significa molto». Galit ha ammesso di aspettare con ansia un video di Hamas in cui sia ritratto il figlio, anche se si tratta di propaganda dei terroristi. «Voglio vederlo, anche solo per un istante. Sapere che è vivo mi darebbe sollievo».
d.r.