OSTAGGI – Avinatan Or e la vita con Noa a Tel Aviv

Avinatan Or, 32 anni, era un giovane brillante, appassionato di lettura, di cucina e della vita in famiglia. Cresciuto a Shilo, un insediamento in Cisgiordania, si era trasferito a Tel Aviv dove lavorava come ingegnere elettrico per la multinazionale Nvidia. Assieme alla compagna, Noa Argamani, stava progettando di cambiare casa per andare a vivere insieme.
«Ovunque fosse la famiglia, lui c’era», ha raccontato il fratello Moshe. Zio e amico sempre presente, Avinatan non mancava mai a un evento familiare, anche se distante.
Il 7 ottobre 2023, lui e Noa erano al festival musicale Nova, nel deserto vicino a Re’im. Quando Hamas ha attaccato, i due sono stati catturati e separati. Un video, circolato poco dopo su Telegram, mostrava Noa su un fuoristrada che gridava disperata: “Non uccidetemi!”, mentre cercava Avinatan, circondato da tre terroristi. In quel momento le loro strade si sono separate. Dopo otto mesi di prigionia, Noa è stata salvata nel giugno 2024 grazie a un’operazione israeliana nel campo profughi di Nuseirat. Avinatan invece è ancora nelle mani dei terroristi palestinesi. Dal suo sequestro sono passati 567 giorni.
La sua famiglia ha trasformato il dolore per la sua assenza in una battaglia quotidiana. Moshe, il maggiore dei sette fratelli Or, ha lasciato tutto per impegnarsi a tempo pieno nella campagna per riportare a casa Avinatan. Ha viaggiato in Francia, Inghilterra, Qatar. «Questo è diventato il mio vero lavoro», ha spiegato il fratello, cercando di portare il suo messaggio anche su Al Jazeera, emittente del Qatar considerata ostile da Israele. «Stiamo cercando qualsiasi informazione su di lui. Mi appello a Hamas: avete già rilasciato la maggior parte degli ostaggi. Fate un altro accordo e finiamola qui», afferma Moshe nel videomessaggio inviato ad Al Jazeera.
Da quando è stata liberata, Noa è impegnata a sensibilizzare l’opinione pubblica israeliana e internazionale sul destino degli ostaggi. Nel febbraio 2025 è intervenuta davanti al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. «Finché Avinatan non tornerà, il mio cuore sarà in prigionia». La giovane ha raccontato l’orrore della detenzione e chiesto di concludere un accordo per il cessate il fuoco in cambio di tutti i 59 rapiti ancora in mano a Hamas. «Ogni momento è prezioso. Non possiamo lasciare nessuno lì. Non lasciate che l’oscurità vinca».
A marzo, dopo mesi di silenzio, gli Or hanno ricevuto la conferma che Avinatan è tra i 24 ostaggi ancora in vita. Non sappiamo dove si trovi, né in quali condizioni sia. Ci hanno detto solo che è vivo», ha spiegato la madre, Ditza Or, appena rientrata da un viaggio tra Stati Uniti e Inghilterra, dove ha incontrato funzionari e attivisti. «Anche prima di ricevere quel segnale, io lo sentivo. Sentivo che Avinatan era vivo».
Il 7 ottobre, Ditza si trovava a Gerusalemme con sua madre e, nonostante diverse telefonate, non ha risposto al telefono. Rientrata a casa ha sentito qualcuno bussare alla porta. «Non so perché, ma non volevo aprire la porta. Volevo tenere fuori quelle notizie». Alla porta erano due dei suoi figli, accompagnati da uno psicologo. «Ho capito subito: “Quale dei miei figli?”. E mi hanno detto che c’era un video del rapimento di Noa e Avinatan». Non sapeva nemmeno che i due sarebbero andati al Nova festival. «È stata una decisione dell’ultimo minuto. Ci sono arrivati alle 4:30 del mattino, due ore prima che tutto iniziasse. I suoi amici mi hanno detto che Avinatan aveva avuto la possibilità di scappare, ma ha scelto di restare con Noa. Questo è l’uomo che è». Prima del 7 ottobre, Ditza era terapeuta e docente di psicologia ebraica. «Ora sono solamente la madre di Avinatan», ha spiegato a ynet.
Pur aderendo al Tikva Forum, organizzazione che sostiene la linea del governo, Ditza nelle interviste sottolinea che all’interno ci sono molte sfumature. «Come genitori di rapiti, non capiamo di politica o di operazioni militari, e non siamo obiettivi».
Lei è stata tra i famigliari dei rapiti ricevuti dal primo ministro Benjamin Netanyahu nelle ultime settimane. Alla luce dell’ultima proposta di liberare dieci ostaggi, Or ha chiesto spiegazioni al premier sui criteri con cui vengono scelti i nomi degli ostaggi da rilasciare. «Firmare un accordo per pochi significherebbe abbandonare mio figlio», ha affermato. Netanyahu ha risposto che a decidere è solo Hamas. Ma per Moshe Or questa risposta non basta. «Il governo ha il dovere morale di riportare tutti a casa. Nessuno deve essere lasciato indietro».

d.r.