PAPA FRANCESCO – Rav Alberto Somekh: Guardiamo al futuro
Anno Domini 1997, dicembre. Venne in visita a Torino S.E. Aharon Lopez, ambasciatore israeliano presso il Vaticano a quattro anni di distanza dall’apertura delle relazioni diplomatiche fra Israele e la Santa Sede. Per assolvere al delicato incarico, il governo di Gerusalemme aveva scelto un ebreo osservante, adatto a dialogare con le autorità di un’altra religione. Trascorremmo serenamente il pranzo di Shabbat durante il quale, da giovane ingenuo qual ero, non mancai di far presenti all’ambasciatore tutte le critiche possibili sull’atteggiamento del Papa nei confronti di Israele. Mentre parlavo notai sul volto del diplomatico un sorriso ironico e avvertii che la sua mano mi batteva delicatamente la spalla. Parlavamo in ebraico. «Tir’eh – mi disse, con la tipica movenza di un israeliano –, vedi: il Papa non è il presidente dell’Organizzazione Sionistica Mondiale. Porta avanti una sua agenda che non necessariamente coincide con la nostra».
A tanti anni di distanza ricordo queste sagge parole. Occorre tener presenti due cose. Punto primo. La guerra in corso oggi in Medio Oriente non è un conflitto territoriale, altrimenti un accomodamento sarebbe già stato trovato da tempo. È una guerra di religione. Punto secondo. Questo scontro non vede coinvolte solo due religioni, bensì tre. Scriveva il Profeta Yesha’yahu (54, 17): «Qualsiasi arma sia forgiata contro di te non avrà successo. Qualsiasi lingua si levi contro di te condannerai in giudizio. Questa è l’eredità dei servi di H. e la loro assoluzione da parte Mia. Dice H.». Commenta Don Itzchaq Abrabanel, il grande statista iberico dell’età dell’espulsione, che l’arma della prima parte del versetto allude alla guerra militare indotta dall’Islam, mentre la lingua della seconda parte allude agli strumenti diplomatici dell’occidente, che tenta di persuaderci mediante il dibattito politico e il dialogo teologico: oggi preferiamo parlare di «confronto» mediatico.
Alla luce di tutto ciò mi siano consentite tre semplici osservazioni: 1) Non è forse quantomeno intempestivo polemizzare sul pontificato di Francesco a feretro ancora aperto, sfidando il cordoglio e la costernazione generali per la sua scomparsa e suscitando solo reazioni negative? Sarebbe stato prudente dare più tempo al tempo e attendere che gli storici, a “bocce ferme”, avviassero l’analisi dei fatti. 2) Non è forse semplicemente goffo porgere le condoglianze per poi ritirarle? A questo punto è stato assai più coerente l’atteggiamento di chi fin dall’inizio aveva scelto il silenzio. Infine, 3) il pontificato di Bergoglio, al netto dell’influenza che certamente si porterà dietro nel tempo, è comunque un’esperienza conclusa. Occorre piuttosto pensare al domani. A breve ci troveremo davanti la figura del suo successore. Ringraziamo del fatto che non saremo più tenuti a recargli in omaggio un Sefer Torah, come per secoli hanno fatto gli ebrei romani, con il rischio che l’illustre destinatario lo gettasse a terra o lo lacerasse. Ciò accadde peraltro una sola volta con Innocenzo II nel 1130. Alla comunità ebraica non restò allora, presumibilmente, che indire un giorno di digiuno per l’oltraggio!
Come andò a finire la visita dell’ambasciatore Lopez a Torino nel dicembre 1997? Il lunedì mattina successivo lo accompagnai all’arcivescovado. Quando l’ora defunto Cardinal Saldarini, un brianzolo di grande bonomia, ci venne incontro il diplomatico gli disse in perfetto italiano: «Eminenza, Le porto i saluti della mia città, Gerusalemme». Prontamente il porporato allargò le braccia e rispose: «È anche la mia città!» Al che l’ambasciatore, di rimando: «Sì, ma io ci sono nato!». Il volto dell’arcivescovo rimase attonito, senza parole. Non potei fare a meno di pensare per pura assonanza, sia chiaro, a un altro versetto di Yesha’yahu (1, 18): «Se anche i vostri trascorsi fossero rossi come la porpora, diventeranno bianchi come la neve!».
Rav Alberto Somekh