ROMA – Ucei accoglie i familiari di cinque ostaggi non più in vita: «Aiutateci a riportarli a casa»

Se per alcuni ostaggi la speranza di riportarli a casa in vita resta un’ipotesi concreta, per i familiari di Idan Shtivi, Jonathan Samerano, Uriel Baruch, Mohammad Alatrash e Shay Levinson questa possibilità non esiste più. E da Gaza, dai tunnel di orrore di Hamas, attendono soltanto la restituzione di un corpo da seppellire in un cimitero.
L’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ha dato loro voce attraverso una conferenza stampa organizzata nei locali della Biblioteca Nazionale dell’Ebraismo Italiano a Roma. Da tutti un appello: non lasciateci soli, ascoltate le nostre storie.
Shtivi, 28 anni, di Petach Tikva, si trovava al Nova Festival per filmare degli amici musicisti. Quando è iniziato l’attacco, ha aiutato altre due persone a fuggire. Proprio allora è stato ucciso e il suo corpo è stato portato dai terroristi a Gaza. Samerano, 21 anni, era originario di Tel Aviv e sognava di diventare un dj. Dal festival era riparato al kibbutz Be’eri, sperando di mettersi in salvo, ma lì è stato ferito a morte da miliziani di Hamas. Due mesi dopo, l’esercito israeliano ne ha annunciato il decesso. Era al festival anche Baruch, 32 anni, nato a Gerusalemme. I suoi cari lo descrivono come una persona solare e piena di vita. Apparteneva alla comunità beduina Muhammad al-Atrash, 39 anni, nato a Sa’wa e inquadrato nell’unità Bedouin Trackers dell’esercito. Aveva 13 figli. Era un militare anche il 19enne Shai Levinson, di Giv’at Avni. I suoi amici lo ricordano come un ragazzo impegnato per la convivenza tra arabi ed ebrei.
«Poteva salvarsi, ma ha pensato ai suoi amici. Ha aiutato, è stato ferito ed è stato rapito. E ora è a Gaza, non si sa se vivo o morto», ha dichiarato Eli Shtivi, il padre di Idan, mostrando di mantenere una flebile speranza al riguardo. «Mio fratello aveva 19 anni, rimarrà per sempre un ragazzo di quella età. Shay in ebraico significa “regalo” e lui è stato proprio così, per me, per i suoi genitori», aveva emozionato in precedenza Ben Levinson, il fratello di Shay. Amir Alatrash, uno dei fratelli di Mohammad, era forse il più provato oggi in Ucei: «Per otto mesi ho ignorato se mio fratello fosse vivo o no. Poi l’esercito mi ha mostrato un filmato in cui si vedevano i terroristi con il cadavere di Mohammad, trascinato dentro una jeep. Hamas è come l’Isis, non sono dei veri musulmani, vanno fermati». Per Idan Baruch, fratello di Uriel, in questa guerra Israele «è il canarino nella miniera che avvisa il mondo occidentale del terrorismo» ed è bene ricordare che «non è un conflitto tra ebrei e arabi». Mentre Kobi Samerano, il padre di Jonathan, ha raccontato che uno dei due assassini del figlio lavorava all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite dedicata ai rifugiati palestinesi.
Tante le domande dalla stampa e da testimoniare c’è stato in conclusione un toccante abbraccio tra un’attivista iraniana anti-regime e lo stesso Samerano.

«Aiutare i media a fare chiarezza»

«Siamo convinti dell’utilità di questi incontri, anche per far luce sulle conseguenze di quanto è avvenuto in Israele, in Medio Oriente e in Italia: non sempre i media colgono con completezza ed equilibrio la difficoltà delle dinamiche, a fronte dell’enorme responsabilità degli organismi internazionali», ha dichiarato in apertura d’incontro l’assessore Ucei alla comunicazione Davide Jona Falco. L’eterogeneità della delegazione presente oggi a Roma rende bene a suo dire «la complessità della società israeliana, il fatto che non sia un blocco unico». Ai saluti introduttivi si è unita Inbal Natan, portavoce e consigliere politico dell’ambasciata d’Israele: «Grazie a tutti voi per aver trovato la forza per venire qui a Roma e raccontare le vostre storie: le storie di un padre che ancora attende di sapere se un figlio è vivo o morto; la storia di una nonna che viaggia da un continente all’altro, in un mondo che inizia a dimenticare».
A margine della conferenza Eli Shtivi ha svelato a Pagine Ebraiche il suo legame con l’Italia: suo padre Moses ha studiato qui botanica e nel 1927 emigrò da Roma nell’allora Palestina mandataria. «Aveva il passaporto italiano. Vorrei ottenere la cittadinanza anche io, ci stiamo lavorando».

Adam Smulevich