MILANO – Il premio Adelina Della Pergola a Gaëlle Nohant: «Scavo negli archivi per tramandare la memoria»

«Scrivere un libro ti dà l’opportunità di scegliere su chi porre l’attenzione e io volevo fossero le vittime della Shoah. Volevo fare la mia parte per restituire loro un nome, un’identità», spiega l’autrice francese Gaëlle Nohant, seduta tra i banchi della Sinagoga Centrale di Milano. Pochi minuti dopo, a Nohant verrà conferito il Premio Adelina Della Pergola – giunto alla sua 25esima edizione – per il romanzo L’archivio dei destini (Neri Pozza), un’opera che restituisce dignità a chi è stato cancellato dalla Storia.
Nel suo dialogo con Pagine Ebraiche, l’autrice insiste sul ruolo della letteratura come strumento etico e formativo: «Viviamo in un mondo che chiede risposte semplici, ma la realtà è complessa. La letteratura è uno spazio in cui possiamo esplorare questa complessità senza dover scegliere un lato».
L’archivio dei destini racconta la storia di Irène, una donna francese che lavora presso l’International Tracing Service di Bad Arolsen, in Germania, un centro di documentazione dove, dalla fine della guerra, si conducono ricerche sul destino delle vittime del regime nazista. Nel 2016, le viene affidato un compito particolare: restituire migliaia di oggetti rinvenuti nei campi di concentramento alle famiglie dei loro proprietari originari. Oggetti modesti, che nascondono segreti e storie. In questa ricerca, Irène incontrerà persone che la muoveranno e la guideranno, da Lublino e Varsavia a Parigi e Berlino, fino a scoprire un passato che la riguarda personalmente.
«Non avevo mai pensato agli archivi come a una forma di resistenza, ma lo sono. Gli archivi del ghetto di Varsavia, ad esempio, sono per me importanti quanto la resistenza armata. Chi conserva quegli oggetti e quelle tracce è un ponte tra i morti e i vivi», ha spiegato Nohant. «Restituire un oggetto significa restituire una presenza, offrire ai discendenti una connessione che era stata spezzata, riaccendere una fiamma di memoria dove c’era solo silenzio».
Nohant non si è limitata alla ricostruzione letteraria: prima di scrivere il romanzo, ha partecipato di persona ad alcune cerimonie di restituzione organizzate dal centro di Bad Arolsen. Eventi carichi di emozione, in cui oggetti apparentemente insignificanti tornano nelle mani dei famigliari dei deportati, diventando simboli viventi di memoria e riconciliazione.
«Quello che porto con me è la dolcezza di queste cerimonie. C’è una sorta di pace, come se in quel momento si potesse riparare qualcosa. A volte, persone che non si parlavano da anni si riconciliano. E i bambini, che vengono portati lì, si comportano in modo composto, come se percepissero l’importanza di ciò che sta accadendo», sottolinea l’autrice.
Sul significato del suo impegno letterario, Nohant riflette sulla necessità di tramandare la memoria alle nuove generazioni: «Volevo scrivere un libro che potesse servire come strumento di trasmissione, soprattutto per i giovani. Per quelli che forse non leggeranno mai le testimonianze dirette. La narrativa può creare un ponte tra passato e presente, e permettere a chi legge di sentire la storia come qualcosa di vivo».