SALONE DEL LIBRO – Sarai Shavit: «Cosa legge e cosa scrive Israele dopo il 7 ottobre»

Nelle classifiche dei bestseller israeliani del 2025 spiccano i nomi di Dorit Rabinyan, tornata dopo sette anni di silenzio con un memoir molto personale, e Dror Mishani, autore di noir sempre più apprezzati anche in Italia. Accanto a loro, spopolano romanzi romantici firmati da autrici americane come Colleen Hoover, Kristin Hannah e Chloe Walsh. Il filosofo Yuval Noah Harari e le sue riflessioni sulla storia umana sono sempre tra i libri più venduti in Israele. E nell’atmosfera tesa del paese, molti lettori si rifugiano nella lezione di Viktor E. Frankl: «Tutto può essere tolto all’uomo, tranne la libertà di scegliere come reagire».
È un panorama composito, stratificato, quello del mercato editoriale israeliano, che la scrittrice, poetessa ed editor Sarai Shavit conosce bene e analizza con lucidità. «In Israele una tendenza storica è la lettura di narrativa realistica: storie di famiglia, racconti sulle origini del paese, romanzi sulle guerre, sul servizio militare, sulla perdita di figli, sulle difficoltà economiche e sul conflitto israelo-palestinese. È come invitare il lettore a una cena israeliana, con personaggi e situazioni familiari in cui potersi identificare», racconta a Pagine Ebraiche. «Ma oggi, anche grazie all’apertura globale, leggiamo quello che leggono gli americani, gli italiani, i francesi. Il mondo è diventato più accessibile e meno centrato su se stesso».
Da vent’anni parte del panorama letterario israeliano – dirige la storica rivista Moznayim e insegna scrittura creativa all’Università di Tel Aviv e alla Accademia di belle arti Bezalel di Gerusalemme – Shavit osserva da vicino l’evoluzione del settore. «Fino ai primi duemila erano le case editrici tradizionali a decidere cosa pubblicare. Era un mercato letterario elitario. Oggi, tra editoria indipendente, piattaforme di auto-pubblicazione e social network, il sistema è molto più fluido. E si vedono generi nuovi imporsi, come i thriller psicologici in ebraico, un tempo quasi assenti ». A sorprenderla è anche la nuova vitalità della poesia. «I social hanno fatto bene alla poesia: è breve, si legge rapidamente, tocca le emozioni in pochi versi. E in tempo di guerra, molte poesie scritte dopo il 7 ottobre sono diventate virali, condivise migliaia di volte. Non parliamo di successo commerciale, ma culturale: letture che aiutano a contenere il dolore, anche se non lo risolvono».
Shavit, da questa primavera a Torino per un progetto di insegnamento di ebraico all’Università, segue con attenzione anche l’andamento internazionale della letteratura israeliana. «Diversi agenti letterari testimoniano come, dopo il 7 ottobre 2023, sia diventato molto difficile pubblicare all’estero autori israeliani. Io forse sono stata un’eccezione: durante la guerra ho pubblicato in Italia (Lettera d’amore e d’assenza, Neri Pozza, ndr), ho vinto un premio e il mio libro è stato venduto in altri tre paesi. Ma non è un romanzo tipicamente israeliano, è una storia d’amore scritta in forma poetica. Se oggi proponessi un romanzo realista ambientato in una famiglia israeliana, temo che le porte si chiuderebbero». Un’amara constatazione, soprattutto perché, aggiunge la scrittrice, «la maggior parte degli scrittori israeliani sono anche i primi a manifestare contro il governo, contro la guerra, per la pace».
Intanto, in patria, si legge e si scrive sulla guerra. E tanto. «Mi aspettavo una fuga da questi temi. Invece i lettori israeliani vogliono affrontare la guerra anche dal punto di vista culturale. Uno dei libri che mi ha colpita di più è The Little Picture: an unheroic war diary (Il piccolo quadro: diario di guerra non eroica) di Dror Mishani, un memoir scritto durante le prime settimane del conflitto. È un testo commovente, riflessivo, che racconta anche i dilemmi identitari di un autore sposato con una donna polacca non ebrea. Leggendolo, ho capito che per alcuni scrittori è vitale scrivere subito sulla situazione israeliana post 7 ottobre, mentre per altri, come me, serve ancora tempo per elaborare». Un altro esempio è il libro della poetessa e studiosa Haviva Pedaya, che ha scritto un’opera unica nel suo genere: un commento al testo biblico secondo l’esegesi di Rashi, riletto alla luce delle stragi di Hamas e della guerra. «È un libro straordinario che unisce l’antico e il contemporaneo, e mostra come anche il conflitto attuale possa essere osservato attraverso lo sguardo della tradizione».
La letteratura araba e palestinese tra i lettori israeliani invece è ancora poco diffusa. «Prima di iniziare un progetto di raccolta bilingue ebraico-arabo che sto curando, conoscevo pochissimo la letteratura palestinese», confessa Shavit. «Agli studenti non viene insegnato nulla a riguardo ed è un peccato. Abraham Yehoshua diceva che per capire i palestinesi bisogna leggere i loro libri. Dopo averlo fatto, non posso che confermare».
Chi ha successo invece sono gli scrittori europei. «Elena Ferrante è la più famosa e amata ed è stata tradotta in ebraico già negli anni Novanta, ben prima del suo boom internazionale. Anche il francese Michel Houellebecq ha molto seguito e quest’anno ritirerà il Premio Gerusalemme. Poi c’è il norvegese Karl Ove Knausgård e soprattutto la spagnola Sara Mesa. Le sue storie, come quelle di Ferrante, si avvicinano molto, per temi e sensibilità, alla cultura israeliana: romanzi realistici su persone, relazioni, famiglie, in cui i lettori qui si riconoscono profondamente».
Daniel Reichel