SALONE DEL LIBRO – Etgar Keret: «Chi soffre non è impotente»

Sulla copertina del libro il pappagallino variopinto tiene nel becco rosso la sicura di una bomba a mano: «Andiamo verso un futuro in cui il conservare tratti umani è minacciato dalla violenza, dalla tecnologia, dalla solitudine, dall’ansia. Queste pagine riflettono lo spirito dei tempi, lo Zeitgeist».
Etgar Keret, uno dei maggiori scrittori israeliani viventi, parla in anteprima con Pagine Ebraiche dei nuovi racconti contenuti in Correzione automatica (Feltrinelli). Noto per aver pubblicato diverse raccolte di racconti brevi o brevissimi (alcuni di sole due pagine) tradotti in 49 nazioni, con Un intoppo ai limiti della galassia (Feltrinelli) ha vinto il prestigioso concorso nazionale israeliano Sapir Prize nel 2018 e nel 2019 il National Jewish Book Award.
I trentatré racconti che compongono Correzione automatica sembrano essere pervasi dal dolore, dalla solitudine, dalla morte improvvisa che potrebbero rendere questa raccolta più cupa delle precedenti. «Sono d’accordo fino a un certo punto», commenta lo scrittore. «Secondo me non c’è nel libro l’opposizione fra felicità e speranza. Credo ci sia piuttosto un conflitto fra umano e disumano. È una dimostrazione di come le persone, calate nelle situazioni più disumane, riescano a conservare il loro lato umano. Nelle mie storie getto umanità in una pentola in cui ribolle il disastro e mostro come le persone coinvolte possano trovare la propria strada, essere più che semplici vittime, fallire nel loro modo specifico. E siano spaventati da quello di cui scelgono di aver paura e non da quello che Facebook ha deciso per loro».
In Zen per principianti il mondo fisico che circonda il protagonista continua a mutare nello spazio senza nessuna spiegazione logica, nell’inconsapevolezza di familiari e conoscenti: significa che l’unica risposta possibile è l’accettazione di quanto ci accade intorno? «Non accettazione, ma umiltà», afferma Keret.
«Credo che il genere umano attraversi una fase molto pericolosa e narcisistica in cui ognuno di noi ha accesso a una quantità di informazioni pari a quella di un Dio onnipotente. Ovunque guardiamo, assistiamo a grandi ingiustizie attraverso una lente che ci fa credere che siamo responsabili di quello che succede e possiamo reagire: mettiamo like sui social, condividiamo contenuti, descriviamo gli eventi orribili a cui assistiamo, ma alla fine siamo esseri umani. Questo ci porta a un senso di impotenza e ci fa credere che ci sia una forza del male in agguato là fuori. Non importa quale sia la tua opinione politica. Tutti si sentono come se stessero perdendo, come se ci fosse un potere oscuro che vuole sabotare le loro idee. Se provate a cercare una persona malvagia nel mio libro, invece, una persona che dovremmo poter odiare con facilità, non la troverete. Ci sono persone deboli, che falliscono, indifferenti, ma non questo tipo di semplificazione in cui siamo immersi. Vorrei che chi soffre per la propria impotenza nei confronti della società si rendesse conto che non è impotente, ma neanche Dio».
Etgar Keret usa un esempio fantasioso per spiegarsi. Immagina un gruppo di cervi nella foresta che organizza petizioni contro i leoni che vogliono divorarli. Ma improvvisamente ottengono internet e vogliono che tutti i leoni della terra diventino vegetariani. Quindi cambiano le foto nel profilo dei loro social per sostenere la propria campagna. Si illudono di promuovere un cambiamento, ma il leone li divora ugualmente.
Pregare è come scrivere
Nel Medioevo, invece, spiega lo scrittore con un altro esempio, pur vivendo in un’epoca buia, nella mancanza di informazione e senza poter influire sul quadro macroscopico, era possibile vivere una vita semplice, aiutando concretamente i poveri del villaggio e le persone vicine: «Ciò che i social media ti indottrinano a fare non è provare dolore, ma rabbia e desiderio di vendetta. È un attivismo limitato solo a punire, non a curare. Se vuoi boicottare una persona per aver detto qualcosa, tutti sono con te. Se raccogli soldi per cibo o coperte o qualsiasi bene nel mondo reale, pochissimi sono dalla tua parte. È facile convincerti a cambiare la tua immagine su Facebook con la bandiera dell’Ucraina o con l’invito a porre fine alla guerra di Gaza. Ma, a essere onesti, per le persone in Medio Oriente e in Ucraina il fatto che tu cambi la tua pagina Facebook non significa tanto quanto se gli mandassi una coperta o una bottiglia di acqua minerale. Viviamo in un universo in cui fare equivale a commentare e nel regno dell’informazione nulla è importante».
La storia che riguarda più da vicino il 7 ottobre si intitola Fervore e narra di un uomo che si convince di come la liberazione degli ostaggi possa dipendere dall’intensità della sua preghiera.
«L’ho scritto dopo una discussione con mia sorella, che è ultraortodossa, quando mi ha detto che aveva raddoppiato le sue preghiere», racconta lo scrittore. «Le ho risposto che avrebbe anche potuto triplicarle, che un mio amico era morto nei tunnel di Gaza e le sue preghiere non l’ave vano aiutato. Poi ho capito che non ero stato carino verso di lei e ho deciso di scriverne un racconto. È così che ho capito come la preghiera sia simile allo scrivere. Quando scrivo, immagino un lettore che possa comprendere le mie idee, piangere con me. E capisco che quando qualcuno prega, immagini Dio che lo ascolta. Siamo partiti da una litigata, ma attraverso la scrittura sono riuscito a riconciliarmi con mia sorella».
Quando gli chiedo quale consiglio possa dare ai lettori di Pagine Ebraiche interessati a iniziare a scrivere narrativa, sorride e mi racconta ancora una storia.
La storia dentro di noi
Da piccolo Etgar viveva in una piccola cittadina e la madre lo aveva portato nello studio del pediatra, dove un’altra madre l’aveva riconosciuta come sopravvissuta alla Shoah e aveva ordinato al figlio di lasciarle il posto. La madre di Keret si era avvicinata al bambino affettuosamente e gli aveva chiesto la spiegazione di quel gesto. Poi, gli aveva detto che quella che aveva raccontato era la sua versione, ma lei ne aveva un’altra: proprio perché era sopravvissuta alla Shoah, se fossero rimasti chiusi in quella stanza senza cibo, né acqua, lui e sua madre avrebbero ceduto molto prima di lei. Per questo era bene che il bambino riprendesse il proprio posto e conservasse le opportunità.
«Mia madre non ha mai accettato la storia e il ruolo che le era stato attribuito dallo Stato, ha voluto scrivere la propria versione, non essere ridotta a tessera di un mosaico che spiegasse la creazione di Israele», conclude Keret. E arriva al consiglio: «Non cercate ispirazione nelle storie del tempo, non narrate la storia del vostro feed Facebook o quella in prima pagina sul quotidiano che leggete. Trovate la storia dentro di voi. Viviamo in un brutto periodo e quelle che ci circondano sono storie brutte. Nei tempi buoni, puoi appoggiarti a tutto: etica, ideologia, correnti artistiche. In tempi come questi devi portare fuori la storia che hai dentro e non inalare il fumo e la nebbia che ti circondano trasformandole in nutrimento».
Simone Tedeschi