SALONE DEL LIBRO – Locus, il potere delle parole: caratteri ebraici e cuore in Italia

«Ogni libro pubblicato è frutto di una scelta editoriale precisa, però all’inizio non sapevo individuare un filo conduttore. Guardandomi indietro, ne ho poi trovato uno: la libertà. I personaggi e gli autori dei libri che ho pubblicato cercano sempre di liberarsi da qualcosa: da un sistema, da un’oppressione, da un regime. E lo fanno attraverso la creatività».
Con questa consapevolezza, maturata negli anni, Shira Hefer ci narra la traiettoria di Locus, la casa editrice indipendente che ha fondato in Israele nel 2016 e che dirige ancora oggi dall’Italia. Un progetto nato dal desiderio di trasformare la sua passione per la traduzione in un gesto culturale e politico.
Figlia di un diplomatico, cresciuta in paesi diversi imparando nove lingue, Hefer ha iniziato il suo percorso professionale traducendo letteratura per le grandi case editrici israeliane. I titoli che le arrivavano sul tavolo seguivano logiche commerciali e per lei erano privi d’interesse. «Ricevevo libri che non avevo voglia di tradurre. Volevo scegliere io cosa mettere al centro del mio lavoro».
La risposta è stata aprire una casa editrice. Prima insieme a un amico editor, poi, quando le loro strade si sono divise, in autonomia. Così è nata Locus, con una linea editoriale precisa: lavorare solo con librerie indipendenti, pubblicare testi di qualità, valorizzare le voci fuori dai circuiti dominanti. Il nome latino richiama uno spazio di libertà, un luogo in cui idee, linguaggi, visioni si incontrano.
Uno dei primi titoli pubblicati da Locus è stato Il mio tempo è la notte della scrittrice russa Ljudmila Petrusevskaja. Ambientato in una kommunalka sovietica (appartamenti comunitari), il romanzo racconta la storia di una poetessa che trova rifugio nella scrittura notturna per sopravvivere al caos della vita familiare, alla mancanza di spazio, al peso di tre generazioni che convivono sotto lo stesso tetto. «Petrusevskaja usa un linguaggio dall’ampio spettro espressivo: da toni molto grezzi e duri, fino a momenti di grande delicatezza e raffinatezza. È un testo pieno di contrasti, come spesso accade nella letteratura russa: tutto è estremo, melodrammatico, intenso. Ma c’è anche moltissimo umorismo nero. Ed è questo, credo, il messaggio del libro: che la vita può toccare abissi profondi, ma anche altezze incredibili. È un palcoscenico in cui esprimersi, creare, resistere».
Altro titolo fondamentale nel catalogo Locus è Due signore molto serie di Jane Bowles, unico romanzo scritto da una delle voci più eccentriche e geniali del Novecento, sottolinea Hefer. Due donne che abbandonano la vita coniugale per cercare qualcosa di indefinibile e forse proprio per questo autentico. «Non sapevo se avrebbe venduto, ma non mi importava». Critica e pubblico, come per Petrusevskaja, apprezzano la scelta e Locus si ritaglia il suo spazio. La linea è raccontare attraverso libri non convenzionali, storie che trovano nuovi modi per parlare di intimità, potere, corpo, oppressione, desiderio. L’estetica è parte integrante della visione di Hefer con attenzione alla grafica, alla carta, alla forma. «Un libro deve anche essere bello da tenere in mano, da guardare, da sfogliare».
Oltre a guardare a voci estere trascurate dal mercato israeliano, Locus ha cominciato a pubblicare anche autori israeliani contemporanei. Tra questi, Tamar Weiss-Gabai, vincitrice in patria del Premio Brenner e tradotta anche in italiano (La metereologa, Giuntina).
Accanto al lavoro letterario, c’è anche un impegno preciso verso la pluralità linguistica e culturale, con la volontà di tradurre in ebraico letteratura araba e palestinese, ma non è semplice. «Molti autori palestinesi non vogliono essere pubblicati in ebraico. Alcuni per protesta, altri per paura: temono le reazioni nella loro comunità, rischiano isolamento, critiche, ritorsioni». A volte è Hefer a dire di no. «Più volte le traduzioni non mi convincevano e per questo le rifiuto». Non è accaduto con la scrittrice beduina Sheikha Helawy, originaria di Haifa e annoverata tra le più importanti voci della letteratura palestinese. Scrive in arabo, ma insegna in ebraico e Locus ha pubblicato la sua raccolta di racconti La guerra ha un naso in cui si intrecciano realismo, ironia e dramma familiare. Una scelta che ancora una volta riflette la visione di Hefer dell’editoria: «La mia agenda è sviluppare il pensiero critico, esplorare nuovi modi di pensare, di vivere, di vedere il mondo. Incoraggiare il pluralismo e la diversità. È un’agenda profondamente umanista, contro l’omologazione, contro l’unità imposta, contro il fascismo».
Fortemente critica nei confronti dell’attuale governo israeliano, Hefer da circa un anno vive con la sua famiglia in Italia, in Versilia. I suoi tre figli frequentano la scuola pubblica e parlano già italiano. «La vita qui è più calma. In Israele c’è troppo rumore: la politica, le crisi, le atrocità della guerra, tutto è tensione e aggressività. La vita in Toscana mi ha restituito concentrazione e motivazione». Il trasferimento è temporaneo e il lavoro della casa editrice continua senza sosta. Il desiderio è di conoscere meglio il panorama letterario italiano e costruire nuovi progetti. Per questo in programma c’è la visita al Salone del Libro di Torino.
Intanto, Hefer ascolta molto la radio in auto, dove ha scoperto una voce che l’ha colpita in modo particolare: quella di Edoardo Camurri. «Mi riconosco nel suo modo di intendere la cultura come strumento per sviluppare la propria indipendenza. E anche per imparare a comportarti meglio con le persone».
Per Hefer, la cultura – e in particolare la parola – è l’antidoto alla violenza crescente che percepisce in Israele e nel mondo. «Usare le parole vuol dire negoziare, ascoltare, imparare, essere curiosi. Vuol dire capire cosa fa male all’altro, e farsi capire. È questo il potere della lingua»

d.r.