Begin, patria e famiglia

«Mio padre era quello che in yiddish si definisce mensch: un uomo di integrità, di carattere, di valore. Non si tratta solo di essere buoni: significa rimanere moralmente saldi anche nelle avversità ». Parla Zeev Benny Begin, figlio dello storico capo della destra israeliana Menachem Begin. L’occasione del colloquio con Pagine Ebraiche è il centenario della fondazione ufficiale del sionismo revisionista (nel 1925 nasce l’Hatzoar) e la ripubblicazione in Italia del libro Prigioniero in Russia (Giuntina), in cui il futuro primo ministro d’Israele ricostruisce il suo arresto a Vilna e la detenzione per mano del regime sovietico per le sue idee sioniste. «Non aveva bisogno che gli si dicesse di essere contro ogni dittatura e ogni violazione dei diritti umani. Ma con la detenzione toccò con mano il significato di vivere sotto un regime oppressivo». Una volta libero, Begin rimase colpito «nel vedere, anche dopo la morte di Stalin (1953) e nonostante le denunce di Krusciov delle atrocità commesse dal regime (1956), come in Europa, e in parte anche in Israele, il comunismo fosse considerato da alcuni un’ideologia positiva e invincibile. Una conferma di quanto fosse fondamentale lottare contro ogni forma di tirannia», sottolinea il figlio. «Per questo non dimenticò mai il sacrificio del popolo russo nella lotta contro il nazismo».
Un nonno col bastone
Geologo e figura storica della destra israeliana, Benny Begin racconta con precisione e rispetto la figura del padre: combattente, statista, ma soprattutto un «uomo integro e allo stesso tempo capace di compromessi». L’incarcerazione sotto il regime sovietico, nel 1940, e la Shoah furono decisive nel forgiare la sua visione politica. Nella prigione di Vilnius, Begin imparò la disciplina del pensiero e della parola. Un’abitudine che non avrebbe mai perso, diventando uno dei più abili oratori della politica israeliana. Il rapporto con la famiglia fu un altro pilastro formativo. «Diceva che la persona più paziente che avesse mai conosciuto era sua madre e la più coraggiosa era suo padre. Ereditò le qualità di entrambi». Tra i ricordi di famiglia, uno riaffiora in particolare: l’intervento del nonno per difendere un altro ebreo dalla violenza di un antisemita a Brest-Litovsk, città di origine dei Begin. «Mio nonno portava sempre un bastone, non perché ne avesse bisogno, ma perché lo considerava parte del suo portamento elegante. Quando fu necessario, lo usò per difendere la dignità di un altro uomo». Un approccio portato da Begin anche in terra d’Israele, dove arrivò nel 1941, durante il Mandato britannico. Qui prese parte all’Irgun, l’organizzazione paramilitare ispirata alle idee di Ze’ev Jabotinsky, favorevole a una linea dura contro gli arabi e i britannici. Begin, che divenne leader dell’Irgun nel 1944, fu coinvolto in azioni controverse e il suo operato fu duramente contestato da David Ben Gurion e dalla classe dirigente laburista. Di quegli anni il figlio ricorda come anche nella rigidità dell’Irgun, «mio padre cercava il consenso. Non dava ordini in modo autoritario: cercava sempre un denominatore comune nelle decisioni. Questo atteggiamento lo accompagnò in ogni ruolo che ricoprì: presidente del partito Herut, guida del Likud e, infine, primo ministro. Trovare un compromesso era un tratto distintivo della sua personalità. Non si trattava solo di politica, ma di un modo di concepire la leadership».
Riconoscere l’uguaglianza In linea con il pensiero della destra sionista, Begin era un convinto sostenitore della legittimità storica e morale di una Grande Israele, che includesse Giudea, Samaria e Gaza. «Sosteneva il diritto del popolo ebraico all’intera Terra d’Israele», afferma il figlio. Ma sapeva anche che, nella realtà politica, era necessario trovare soluzioni praticabili, come dimostra la pace siglata con l’Egitto nel 1979 che gli valse il premio Nobel per la Pace. Begin fu un difensore instancabile dei valori democratici e della divisione dei poteri. «Credeva nella necessità di uno stato forte, ma anche in una magistratura indipendente ». Per lui «i tribunali rappresentavano l’ultima difesa del cittadino contro l’arbitrio del governo». Un principio che il figlio condivide ancora oggi, in un momento in cui il tema dell’indipendenza giudiziaria è tornato centrale nel dibattito pubblico israeliano. In un discorso alla Knesset del 1958 Begin spiegò: «La democrazia non significa solo una forma di governo ma, nella sua essenza, è uno stile di vita. La democrazia significa prima di tutto il vero riconoscimento dell’uguaglianza umana e, in secondo luogo, la persuasione. Se le persone non riescono a convincersi le une con le altre, non può esserci alcun cambiamento di sistema, né delle persone che vi sono associate. E un governo senza cambiamenti è un governo sul popolo, non del popolo». Un esempio dei molti insegnamenti paterni ancora validi oggi: «Yechiel Kadishai, suo storico collaboratore, mi disse un giorno: “Dopo tanti anni, ho capito che tuo padre era prima di tutto un maestro”. Sono d’accordo, anche se non credo di essere stato un buon allievo». Guardando al presente, «a distanza di oltre trent’anni dalla sua morte e quaranta dall’addio alla politica, non si può pensare che il suo pensiero sia applicato nello stesso modo oggi. Ma un dato è evidente: chi un tempo lo contestava, adesso ne riconosce la levatura». Online proliferano le citazioni attribuite a Menachem Begin, ma «soprattutto non passa giorno che qualcuno non mi fermi per esprimere la propria ammirazione per mio padre. Dopo così tanto tempo non è scontato. Era veramente un mensch».
d.r.