GERUSALEMME – Quando Kafka incontrò il rabbino nella foresta

«Ogni sera, verso le sette e mezza o le otto, il Rebbe esce in macchina. Si muove lentamente nella foresta e alcuni dei suoi discepoli seguono la macchina a piedi. Scende dalla macchina in un punto designato in anticipo e cammina con i suoi seguaci lungo i sentieri della foresta fino al tramonto. All’ora della preghiera, verso le dieci, torna a casa…».
È il 1916 quando Franz Kafka, in una lettera a Max Brod, descrive la vivida impressione di un incontro con un rabbino del movimento chassidico e la sua corte. Un documento inedito, esposto fino al 30 giugno prossimo alla Biblioteca Nazionale d’Israele (Nli) nell’ambito dell’esposizione Kafka: metamorfosi di un autore. In occasione dei cento anni dalla morte dello scrittore praghese (con uno slittamento di qualche mese rispetto alla data inizialmente prevista), la Nli ha tracciato un percorso il cui punto focale è il rapporto di Kafka con l’ebraismo e la sua identità ebraica. Diari, lettere, disegni, bozze: una parte del patrimonio di carta che Brod salvò dalla distruzione, disattendendo la richiesta dell’amico in punto di morte, risalta nel coinvolgente allestimento che abbiamo visitato con la guida di una delle curatrici, Karine Shabtai.
Shabtai si sofferma su alcuni dei documenti più interessanti in dotazione alla Nli, che nel 2019 ha ricevuto dalla Corte Suprema d’Israele l’incarico di custodire l’archivio Kafka. Vicino alla celebre Lettera al padre, ecco gli esercizi di ebraico su un quadernino del 1920 pieno di vocaboli con traduzione tedesca a fianco. «Aveva iniziato a dedicarcisi alcuni anni prima », spiega la curatrice. «Le parole più antiche le trascriveva direttamente dal Tanakh, l’insieme dei testi sacri ebraici». La sua insegnante si chiamava Puah Ben Tovim, una giovane “sabra” nativa di Gerusalemme, giunta a Praga per studiare matematica. Insegnava per sostenere le sue spese e Kafka la conobbe attraverso Hugo Bergmann, il grande filosofo amico fin dai tempi delle elementari. Anche lungo questo filone ricorre nella mostra il tema dell’identità. «Cosa ho in comune con gli ebrei? Non ho quasi nulla in comune con me stesso e dovrei stare molto tranquillo in un angolo, contento di poter respirare », scrisse Kafka. Certo è che per un periodo cullò comunque il pensiero di emigrare nell’allora Palestina mandataria. Qui, secondo Brod, avrebbe voluto vivere come «un semplice artigiano».
Kafka: metamorfosi di un autore, il cui curatore principale è Stefan Litt, non si sottrae alle domande spinose. «A chi appartiene Kafka?», ad esempio. In uno spazio apposito è affrontata la controversia legale citata in precedenza, arrivata al termine di un dibattito acceso e spesso polarizzante. Da una parte chi, come la Biblioteca Nazionale d’Israele, sottolineava come le sue opere andassero considerate «patrimonio nazionale ebraico» e rivendicava di essere il posto giusto per valorizzarle. Dall’altra chi ne enfatizzava il carattere tedesco o, in senso più ampio, universale. Una sezione tra le più stimolanti è poi dedicata a come fu recepito in Israele e in Medio Oriente. Le prime traduzioni in arabo di suoi racconti, racconta Shabtai, risalgono alla fine degli anni Sessanta. Un fenomeno che interessò in particolare Egitto, Siria, Libano e Giordania, «aprendo una discussione sulle posizioni di Kafka rispetto alla sua identità ebraica e al sionismo». Se ne continua a parlare. Anche a Gerusalemme.

Adam Smulevich