OSTAGGI – L’instancabile Ofra Keidar

Ofra Keidar aveva 70 anni e una forza che sembrava illimitata. Era una donna pratica, concreta, instancabile. Chi l’ha conosciuta la ricorda sempre in movimento, determinata e devota alla sua famiglia e al kibbutz Be’eri, dove aveva vissuto per quasi sessant’anni. Keidar amava l’attività fisica, il giardinaggio, gli animali, il nuoto. Ma più di tutto, amava prendersi cura della terra, delle persone, dei suoi cari. Per quarant’anni ha lavorato nel caseificio del kibbutz, allevando vitelli, senza mai fermarsi, nemmeno dopo la pensione. «Era fisicamente così forte che era difficile starle dietro», ha ricordato un collega. Arrivava al lavoro ogni mattina all’alba, anche quando non era più tenuta a farlo.
Con il marito Sami, che condivideva il suo stesso spirito, Ofra aveva cresciuto tre figli: Elad, Oren e Yael, la più fragile. Yael ha una disabilità intellettiva, ma grazie all’impegno dei suoi genitori, ha imparato a leggere, scrivere e parlare, sfidando ogni previsione medica. «Ogni settimana la portavano da Be’eri a Gerusalemme per la terapia», ha raccontato il fratello, Oren. «Ora Yael comunica, tutto grazie alla determinazione di mia madre».
Il 7 ottobre 2023, come ogni mattina, Ofra era uscita per la sua consueta passeggiata all’alba. Sami era a casa con Yael, in visita come ogni fine settimana. I terroristi l’hanno intercettata a pochi chilometri dal kibbutz, mentre erano in moto. Le hanno sparato e poi, nel loro rientro a Gaza, hanno portato via il suo corpo. «Era ingenua, pensava fossero beduini che cercavano di rubare. Gli ha urlato: “Basta, smettetela”», ha raccontato Oren. La famiglia conosce questi dettagli perché Ofra era al telefono con il figlio Elad quando è iniziato l’attacco. In quell’ultima telefonata, registrata da Elad, si sente la donna implorare i terroristi di risparmiarla. Non lo hanno fatto. Come non è stato risparmiato il marito Sami, malato di Parkinson e per questo incapace di raggiungere in tempo il rifugio antimissile.
La loro figlia Yael, 43 anni, è sopravvissuta. Rimasta sola per oltre dodici ore, si è nascosta sotto un tavolo nella stazione di polizia del kibbutz, mentre fuori si sentivano gli spari e il fumo dell’incendio appiccato dai terroristi cominciava a entrare dalle finestre. Ha chiamato i fratelli, Elad e Oren, implorando di essere salvata. «Ho detto: “Venite a salvarmi, per favore”, e loro mi hanno detto: “Yael, non possiamo”», ha raccontato. Alla fine, alcuni soldati hanno sentito la sua voce, l’hanno tirata fuori. Era completamente ricoperta di fuliggine, disidratata, in stato di shock.
Oggi è tornata a vivere a Sderot nella struttura di assistenza in cui risiedeva prima dell’attacco, ma ogni fine settimana torna a trovare i fratelli. La sua storia è al centro del documentario Dear Mom, diretto da Dana Levy, Maor Alters, Gala Kaplan in cui Yael, consapevole delle proprie disabilità cognitive, ripercorre la perdita, la solitudine e il ritorno a una quotidianità diversa. «Ora mi prendo cura dei cani in un canile. Mi piace quando abbaiano, e anche quando mangiano gli insetti: mi fa ridere», racconta nel documentario.
All’inizio di dicembre, dopo quasi due mesi dal 7 ottobre, il kibbutz di Be’eri ha annunciato la morte di Ofra Kedar. Il suo corpo è ancora prigioniero a Gaza. Per molti giorni, ricorda Yael nel documentario, “Dicevo: ’Dov’è la mamma, dov’è?‘. Gridavo: ’Mamma, dove sei?’. Pensavamo fosse stata rapita. Ho chiesto a mio fratello Oren: ‘E la mamma?’. E loro non sapevano nulla, proprio nulla. Gli ho detto: ‘Voglio sapere perché l’hanno rapita, perché hanno ucciso la mamma. Che cosa ha fatto? Non capisco’. Ancora non capisco. E nemmeno papà. Papà era malato. Perché hanno fatto del male a papà?”.
Oren ora è il tutore di Yael. Lui non si aspetta un ritorno della salma della madre. «Temo rimarrà dispersa. Non so se la troveranno mai». La priorità, ha spiegato di recente in un’intervista ad Haaretz, sono gli ostaggi ancora in vita (20 secondo fonti israeliane) da 600 giorni prigionieri di Hamas. “Mia madre mi avrebbe detto di smettere di rimuginare sul passato. Era una donna pragmatica che non amava i sentimentalismi. Non era il tipo che dimostrava affetto con abbracci e baci, ma faceva tutto per noi”.
Yael continua a parlare di lei ogni giorno. «Mia madre è la mia vita», ha spiegato al sito ynet. «Mi coccolava, mi preparava il caffè con la macchinetta, mi chiamava “Orsa russa” perché dormivo tanto, e “Leone” per i miei capelli. Mi manca tanto. Le chiedevo sempre: “Mamma, mi vuoi bene?”. E lei mi rispondeva: “Ti voglio bene, figlia mia”. Ora le parlo lo stesso, ogni mattina».
d.r.