ISRAELE – Il paese diviso sulla tregua, il governo allarga gli insediamenti

Con il dibattito nazionale incentrato sul destino della guerra e degli ostaggi, una notizia ha spezzato ogni equilibrio in Israele: è morto Ravid Haim, il neonato sopravvissuto all’attacco terroristico in cui due settimane fa è stata uccisa sua madre, Tzeela Gez. Il piccolo era nato con un cesareo d’urgenza dopo che un terrorista palestinese aveva aperto il fuoco contro l’auto dei suoi genitori, in viaggio verso l’ospedale da Bruchin, in Cisgiordania. La madre era morta sul colpo, il padre, Hananel Gez, ferito leggermente. Dopo quindici giorni di ricovero, il piccolo Ravid si è spento nella notte al centro medico pediatrico Schneider. L’intero paese è in lutto. «Non ci sono parole che possano consolare davanti a tutto questo», ha dichiarato il primo ministro Benjamin Netanyahu. “Il popolo ebraico abbraccia Hananel in questo momento difficile e prega affinché possa trovare conforto e sollievo insieme ai suoi figli e all’intera famiglia”, ha aggiunto il presidente d’Israele, Isaac Herzog.

Il negoziato sugli ostaggi
Sul fronte diplomatico, le trattative per il rilascio degli ostaggi a Gaza attraversano una fase decisiva ma travagliata. L’inviato speciale degli Stati Uniti, Steve Witkoff, ha presentato una nuova proposta: il rilascio immediato di dieci ostaggi israeliani vivi e la restituzione dei corpi di 18 rapiti deceduti, in cambio di un cessate il fuoco di 60 giorni. Il piano prevede la ripresa della distribuzione degli aiuti umanitari da parte dell’Onu, che si sostituirebbe al meccanismo israeliano attualmente operativo e definito inadeguato dalle Nazioni Unite.
Fonti governative confermano che il piano non include la fine definitiva della guerra, ma prevede la possibilità di riprendere le ostilità al termine della tregua. Tuttavia, ci sarebbero nuove tensioni tra Washington e Gerusalemme: un funzionario israeliano ha riferito al Times of Israel che l’incontro tra Witkoff e il ministro degli Affari strategici Ron Dermer è stato «difficile». L’emissario statunitense si sarebbe detto sempre più frustrato dall’ambiguità e dai rinvii di Netanyahu, in particolare dopo che in questi ha annunciato al paese novità riguardo agli ostaggi salvo poi fare marcia indietro.
A dividere l’opinione pubblica e la politica israeliana è anche il contenuto della proposta americana. Hamas ha affermato di essere disposto ad accettare un quadro che porti al cessate il fuoco permanente e a un ritiro totale delle forze israeliane da Gaza. Ma diversi ministri di Gerusalemme – tra cui Amichai Chikli (Diaspora), Bezalel Smotrich (Finanze) e Orit Strock (Insediamenti) – hanno bollato l’accordo come un «errore strategico» e un «regalo a un nemico in ginocchio», spingendo per il proseguimento della guerra fino alla resa totale di Hamas.
Anche tra le famiglie degli ostaggi emergono posizioni diverse. La maggior parte chiede il ritorno immediato dei propri cari e un’intesa con Hamas. Alcune, come la famiglia Or, denunciano un accordo che non garantisce la liberazione di tutti i prigionieri. I sondaggi condotti nelle ultime settimane descrivono una società favorevole a un’intesa che permetta il rilascio degli ostaggi, anche a costo di sospendere le operazioni militari.

Il destino degli insediamenti
Mentre si cerca una fragile via diplomatica, sul terreno il governo accelera in un’altra direzione. In Cisgiordania è stato approvato il più significativo ampliamento degli insediamenti degli ultimi anni: 22 nuove comunità, metà delle quali completamente nuove, le altre regolarizzazioni di avamposti considerati finora illegali anche dalla legge israeliana. Una mossa fortemente voluta dai ministri Israel Katz (Difesa) e Smotrich, che hanno definito la decisione «storica» e destinata a «consolidare il diritto di Israele alla terra e impedire la creazione di uno Stato palestinese».
Secondo l’analisi di Elisha Ben Kimon su Ynet, l’espansione degli insediamenti non è solo una questione territoriale, ma un segnale politico a più livelli: un messaggio all’Europa, che si muove verso il riconoscimento di uno stato palestinese; un messaggio a Hamas; ma soprattutto una corsa contro il tempo, per radicare la sovranità israeliana nell’area in vista di possibili elezioni anticipate. «Ciò che un tempo richiedeva decenni, ora accade in pochi mesi», scrive Ben Kimon. «È un tentativo di seppellire l’idea dei due stati con l’asfalto e il cemento».
Sul futuro degli insediamenti in Cisgiordania, il sito Makor Rishon ha intervistato l’ambasciatore statunitense Mike Huckabee, considerato molto sensibile sul tema. Pur mantenendo un profilo istituzionale, Huckabee non ha nascosto la propria visione personale: «Guardo le cose attraverso una lente biblica. Per me si tratta di Giudea e Samaria, non di Cisgiordania. E se visito Shiloh o Hebron, è perché sono parte della storia d’Israele. Non pretendo che tutti la vedano così, ma è ciò in cui credo». D’altra parte, ha aggiunto, «la decisione di annettere o dichiarare la sovranità è una decisione israeliana, non americana; e non posso parlare di ciò che farebbe il governo israeliano o della risposta americana, finché non accadrà». 

(Nell’immagine l’inviato Usa Steve Witkoff incontra a Gerusalemme il primo ministro Benjamin Netanyahu – gennaio 2025 – Foto Ma’ayan Toaf)