OSTAGGI – Shay Levinson, tra pallavolo e convivenza

Shay Levinson aveva 19 anni e la pallavolo era il suo mondo. Cresciuto a Giv’at Avni, in Galilea, in una famiglia dove lo sport era una seconda lingua, aveva seguito le orme della madre Shlomit, appassionata giocatrice, e del fratello maggiore Ben. Shay si era unito alla squadra di Eilabun, un villaggio arabo-cristiano a dieci minuti da casa.
Era stato il primo ragazzo ebreo del club, e per anni anche l’unico. Aveva imparato l’arabo per integrarsi meglio, si sentiva parte della squadra. Allenava, giocava, rideva con i compagni. Per i suoi amici era il più solare del gruppo. «Il collante tra tutti noi», hanno raccontato.
Due anni fa, la sua esperienza era stata raccontata in un breve documentario realizzato nella scuola dove studiava, la Kadoorie Agricultural High School. Il film mostrava la sua quotidianità, la naturalezza del rapporto con i compagni di squadra, il suo impegno nello sport come spazio di incontro. La pellicola era intitolata Il soldato della speranza.
Il 7 ottobre 2023 Shay si trovava a Nahal Oz, al confine con Gaza, in servizio come comandante di carro armato. Quando è iniziato l’attacco di Hamas, il suo equipaggio è stato tra i primi a intervenire, riuscendo ad eliminare decine di terroristi. Poi il carro armato è stato colpito ed è esploso. Dei quattro membri dell’equipaggio, solo il conducente è sopravvissuto. Shay è stato dato per disperso.
Nei giorni successivi la sua famiglia ha atteso notizie. Il suo nome non compariva tra i morti né tra gli ostaggi. Solo il 21 gennaio 2024 l’esercito ha confermato il suo destino: Shay era stato ucciso il 7 ottobre e la sua salma rapita a Gaza, dove si trova da 602 giorni.
«Voglio credere che quando ci restituiranno il corpo, ci sentiremo un po’ più in pace» ha spiegato il fratello Ben. «Ma non so davvero se succederà. Il dolore per chi ha un familiare ancora vivo a Gaza è diverso, forse ancora più straziante. Ogni giorno è un tormento. Noi abbiamo smesso di sperare, ma non abbiamo neanche un luogo in cui piangerlo. Nemmeno una tomba». Ben aveva provato a contattare Shay quella mattina. «Gli ho scritto su WhatsApp alle sette. Non ha mai letto il messaggio».
La madre, Shlomit, ha raccontato i primi tre mesi di attesa come un tempo sospeso: «Ogni volta che bussavano alla porta, o sentivamo un’auto entrare nella nostra via, ci prendeva il panico. Era impossibile fare qualsiasi piano: tutto poteva cambiare da un momento all’altro. Era come vivere minuto per minuto. Persino mangiare era diventato difficile. Come potevo sedermi a tavola senza sapere se mio figlio aveva cibo a sufficienza? Non avevamo voglia di fare niente». Ora attendono la restituzione della salma di Shay e chiedono al governo israeliano di fare un accordo con Hamas per riportare i rapiti a Gaza. Ben, tornato nell’esercito è chiaro su un punto: «Non sono disposto a sacrificare nemmeno un capello di un soldato delle Idf per far seppellire mio fratello in Israele. Nessuna famiglia deve aggiungersi al lutto solo perché io possa avere una tomba su cui piangerlo».
Dopo l’annuncio della sua morte, la squadra di Eilabun ha sospeso gli allenamenti. I fratelli Saman e Saher Samaan, allenatori del club, sono andati a trovare la famiglia Levinson durante la Shiva, i sette giorni di lutto previsti dalla tradizione ebraica. «Shay era parte di noi, della nostra famiglia» hanno spiegato al sito ynet. «Il nostro cuore è spezzato. Continueremo, nell’esempio di Shay, a sostenere la convivenza. Lo sport è la nostra lingua è comune».

d.r.