MUSICA – L’ingegno di Goldberg e di Longarato contro l’ignoranza

Durante la Seconda Guerra Mondiale fu profuso molto ingegno nei campi di concentramento o internamento civile e militare non solo per fare musica ma anche per costruire strumenti musicali, qualora non fossero stati sufficienti quelli confiscati nei rastrellamenti o quelli consegnati dalla YMCA ai campi di internamento o quello acquistati al mercato nero; si riscontrò un’inattesa disponibilità da parte delle autorità dei campi al reperimento degli strumenti, diversi campi sorsero presso caserme dismesse laddove, nei locali del circolo ufficiali, non era raro imbattersi in pianoforti o altri strumenti pronti a essere rimessi a nuovo.
Gli strumenti ad arco fabbricati nei campi riscontravano ovunque il medesimo problema di liuteria; violini, chitarre e altri strumenti di legno avevano le casse armoniche quadrate o triangolari.
Grazie a falegnami deportati a Dachau, il compositore ebreo austriaco Herbert Zipper costruì strumenti musicali e assemblò un’orchestra clandestina di 14 elementi che la domenica pomeriggio si esibiva in una latrina inutilizzata del lager; l’orchestra femminile di Birkenau era praticamente completa ma con qualche curiosità dato che, oltre ai canonici dieci violini, violoncello e contrabbasso spiccavano una cornamusa, tre chitarre, tre flauti a becco e flauto traversiere, tre fisarmoniche, un pianoforte e tre mandolini (in seguito i mandolini diventarono cinque).
Nell’aprile 1943 al violinista ebreo ceco Pavel Kling fu consentito di portare a Theresienstadt il proprio strumento; nel 1944 i musicisti di Theresienstadt passarono da un solo pianoforte recuperato nel 1940 presso l’ex liceo a sei pianoforti, tra i quali un gran coda Steinway arrivato da Berlino.
Presso l’Oflag XA Nienburg am Weser i prigionieri di guerra francesi decisero di allestire la Sinfonia n.9 di Beethoven con un’orchestra di 150 professori, fu necessario requisire tutti gli strumenti dei campi di prigionia limitrofi; presso lo Stalag VIIIA Görlitz il compositore francese Olivier Messiaen scrisse il Quatuor pour la fin du temps nel quale violoncello e pianoforte non suonano mai alcune note dato che sugli strumenti in uso a Görlitz mancavano le relative chiavette e corde.
Primo violino dei Berliner Philharmoniker costretto a lasciare l’incarico nel 1934, il violinista ebreo polacco Szymon Goldberg emigrò nelle Indie Orientali Olandesi ma nel 1942 fu arrestato dai giapponesi e internato a Tjimahi (180 km a sud-est di Jakarta) dove assemblò 14 violini, un flauto, un pianoforte con soli 19 tasti funzionanti e un harmonium; Goldberg ricostruì a memoria il Concerto op.61 per violino e orchestra di Beethoven (l’harmonium sostituì fiati e bassi, il pianoforte le parti rimanenti d’orchestra) e, poiché non c’erano abbastanza archetti per i violinisti, alcuni suonarono la parte in pizzicato mentre lo stesso Goldberg suonò un violino sul quale montò corde di chitarra.Presso il campo britannico di prigionia militare di Zonderwater (Sudafrica) il bersagliere italiano Vittorio Longarato (nella foto) prese la ghiera di una bomba dismessa, la agganciò a una pelle di coniglio, montò un’asta di legno ricavata da una panchina (i trucioli del legno furono smaltiti nelle latrine), tirò su di essa i fili metallici dei freni di una bicicletta, prese il dorso di un pettine per stendere le corde e lo rinforzò con un pezzo di gamella; in tal modo ottenne uno straordinario strumento a metà strada tra il banjo (come nel banjo, lo strumento non ha buca di risonanza) e il mandolino del quale riprende la cassa armonica appositamente ‘bucata’ nel legno per aumentarne la risonanza acustica.
Il banjo-mandolino era montato al contrario dato che Longarato era mancino; poche settimane fa lo strumento è stato donato dalla famiglia Longarato alla Fondazione ILMC di Barletta in occasione di un concerto di musiche di prigionia tenuto a Gambellara (Vicenza), paese natale di Longarato.
La sfida sarà farlo tornare a suonare; impresa difficile ma non impossibile.
Nel campo giapponese di Sumatra, la missionaria presbiteriana Margaret Dryburgh assemblò un coro, tenne corsi di scrittura e danza country, reading di poesia e persino una sfilata di moda, creò un circolo letterario, pubblicò la rivista mensile di 16 pagine Camp Chronicle distribuita in copie carbone contenente un cruciverba creato da lei stessa, articoli per i bambini prigionieri e appetitose ricette di cucina; nel campo dove le donne fatte prigioniere dopo la caduta di Malaya e Singapore si cibavano di avanzi di cibo e cartilagini di pollame sputate dai soldati giapponesi, la Dryburgh pubblicava gustose ricette culinarie poiché l’ingegno umano compensa con la solidità letteraria e l’intensità astrale dell’arte tutto ciò che è assente nella tridimensionalità.
Pochi giorni fa un soldato israeliano inquadrato attualmente nella riserva ha ricominciato gli studi all’Università; durante una lezione, il suo professore ha parlato della ricerca musicale concentrazionaria della quale Barletta è ormai consacrata quale capitale mondiale. Il giovane soldato dello Stato ebraico che ha combattuto la guerra in corso nei reparti più avanzati di Tsahal mi ha scritto; sull’oceano di materiali che gli ho fornito scriverà la sua tesi universitaria sulla musica più geniale ossia quella più intimamente legata alla vita e al destino del popolo ebraico.
Abbiamo creato vita persino dove c’era la morte; chi scrisse questa musica ci comandò la vita.
Una frase attribuita allo scrittore ebreo Isaac Asimov afferma: «Si è diffuso il pericoloso e falso concetto che democrazia significhi che la mia ignoranza vale quanto la tua cultura».
Chiunque abbia profetizzato ciò, si è palesemente sbagliato.
Una falsa democrazia del pensiero sarebbe comunque un esercizio democratico anche se destinato a fallire come un’equazione sbagliata; l’era attuale ha superato l’equazione pseudo-asimoviana dato che l’ignoranza è diventata più spendibile della cultura, la propinano a tutte le ore nel mainstream televisivo e social e, soprattutto, l’ignoranza professata non ammette confronti o smentite.
Siamo alla dittatura dell’ignoranza e a questo punto non abbiamo che una sola risposta: aprire teatri e biblioteche, riempirli di studenti e musicisti, rivoltare le clessidre, inventarci un nuovo Umanesimo.
Chi scriveva musica in prigionia o costruiva strumenti musicali in deportazione era in realtà intento a stendere il Testamento del Novecento e a posare la prima pietra di futuri edifici del pensiero; l’ignorante consapevole non sopravviverà al banjo-mandolino fatto con pezzi di bomba e fili di bicicletta, al cannibale dei social si impiglieranno le mani tra le corde di chitarra montate su un violino.
Francesco Lotoro