Perché Trump espelle gli stranieri

La decisione dell’amministrazione Trump di espellere gli studenti stranieri coinvolti nelle proteste propal nelle università ha fatto notizia ben oltre i confini degli Stati Uniti. Molti giornali – per pigrizia o disonestà intellettuale – hanno inquadrato la questione come una soppressione della libertà di parola. La narrazione secondo cui gli studenti vengono espulsi dopo aver partecipato a manifestazioni pacifiche a sostegno di bambini palestinesi innocenti ha già fatto presa sull’opinione pubblica. In tanti si sono schierati contro la decisione del governo, contestando chi la pensi in modo diverso ma il racconto di tanti media spesso distorce grossolanamente la realtà.
In primo luogo, è importante chiarire che nelle proteste risuonano gli slogan di Hamas: e non si tratta di poche “mele marce”. Così, anche gli studenti in buona fede, complice la scarsa o nulla conoscenza dei fatti, si rendono complici di gruppi estremisti a favore di un’organizzazione definita terroristica dal governo americano. Tra l’altro la sicurezza dei palestinesi e lo sviluppo umano di Gaza passano in ultimo piano, sacrificati sull’altare della distruzione di Israele. A marzo, un discorso tenuto dall’attivista gazawi Ahmed Fouad Alkhatib in un campus universitario è stato interrotto con la forza da SJP (Students for Justice in Palestine). Alkhatib, che ha perso oltre 30 parenti nella guerra, sostiene che i cittadini di Gaza sono ostaggi della brutalità di Hamas. Non importa se Alkhatib abbia torto o ragione: è chiaro che organizzazioni come SJP non sono interessate a dialogare con le voci dissenzienti se queste accettano il diritto di Israele a esistere.
In secondo luogo, è importante ricordare un semplice fatto. Se uno studente o un insegnante reggesse un cartello con la scritta «Gloria a Dylan Roof!», il suprematista bianco responsabile del massacro di fedeli neri a Charleston, o «Morte ai gay!», verrebbe espulso il giorno stesso. E se a farlo fosse un professore, verrebbe cacciato dal mondo accademico. Perché non dovrebbe essere lo stesso per chi celebra la morte degli ebrei? Va osservato che per tradizione e missione gli Usa difendono la libertà di parola in maniera assoluta. Ma tale tradizione esiste (e resiste) a dispetto delle università. Istituzioni che negli ultimi due decenni hanno promosso la più rigorosa uniformità di pensiero e l’intolleranza al dissenso. In contesti in cui persino degli intellettuali conservatori mainstream sono stati cacciati dai campus da attivisti mai sanzionati dai college, nascondersi dietro la libertà di parola equivale quindi a un messaggio molto chiaro: gli ebrei, e solo loro, non meritano la protezione concessa a tutte le altre minoranze.
In terzo luogo, i giornali sembrano “dimenticare” che molte delle proteste nei campus sono state violente. È notizia di questi giorni la causa legale avviata da due bidelli vittime di maltrattamenti durante l’occupazione alla Columbia. Le lezioni sono state interrotte e le proteste hanno causato danni materiali. Studenti ebrei sono stati molestati e bullizzati. Scene ben documentate sui social media, che ricordano le università tedesche degli anni ‘30, quando razzisti dichiarati impedivano l’accesso ai “non ariani”. In quarto luogo, gli studenti stranieri presi di mira dall’amministrazione non vengono espulsi per violazione della libertà di parola né per condotta violenta. Il reato loro contestato è la violazione dei termini del loro status di immigrazione, che si tratti di una Green Card o di un visto studentesco. Può destare forse perplessità che il primo caso intentato contro uno studente straniero, il siriano Mahmud Khalil, si basi su una disposizione (raramente utilizzata) dell’Immigration and Nationality Act del 1952 che consente discrezionalità al Segretario di Stato di espellere un individuo se questi costituisce una minaccia per gli obiettivi di politica estera.
Ma manifestare per Hamas di fatto significa sostenere un nemico degli Usa. È abbastanza chiaro che se uno studente che richiede un visto o una Green Card rivelasse nella sua domanda l’appartenenza o il sostegno a un’organizzazione terroristica, la sua richiesta sarebbe respinta, sotto qualsiasi presidente, democratico o repubblicano. E questo non dovrebbe essere un tema controverso neppure per i media. Questo tema precede dunque l’argomento ampiamente dibattuto – e forse non del tutto risolto – se gli immigrati abbiano gli stessi diritti di libertà di parola dei cittadini americani. D’altronde avere la facoltà di decidere chi ammettere nel proprio paese è alla base della sovranità nazionale. Al pari di ogni altra nazione, gli Stati Uniti non hanno alcun obbligo di consentire l’ingresso a chi abbia l’obiettivo dichiarato di destabilizzare o nuocere al paese. Va notato che l’obiettivo, espressamente dichiarato nei volantini distribuiti alle manifestazioni, dell’organizzazione responsabile di molti disordini alla Columbia, di cui Mahmoud Khalil era uno dei capi, era la «distruzione della civiltà occidentale». Infine, sebbene sia confortante vedere qualche centinaio di agitatori affrontare le conseguenze delle loro azioni antisemite, c’è una questione più importante che richiede maggiore attenzione. Ossia la capacità incontrollata di soggetti stranieri di finanziare università, influenzandole.
Il Qatar ha foraggiato università statunitensi con miliardi di dollari nell’ultimo decennio. Solo per fare un esempio, uno dei principali beneficiari della largesse qatariota è la Georgetown University, fra i più rinomati atenei per lo studio degli affari pubblici e internazionali. È una coincidenza che un ricercatore di Georgetown, Badar Khan Suri, abbia stretti legami con Hamas? Non permettere ad attori stranieri di dettare la rotta a istituzioni statunitensi è una questione di sicurezza nazionale. Ha senso che un paese spenda 800 miliardi di dollari all’anno per la difesa ma al tempo stesso stenda il tappeto rosso a chiunque (incluse organizzazioni e stati ostili) voglia finanziare le istituzioni di élite modellando la formazione della prossima classe dirigente?

(Nell’immagine: un cartello propal alla City University of New York)

Paolo Curiel