SCAFFALE – La fantasia del Signore

«Il Libro sacro di ebrei e cristiani, oltre che essere ‘oggetto di studio’ di tanti specialisti (dai rabbini nell’ebraismo, agli esegeti e teologi nel cristianesimo, fino ai tanti pensatori, anche contemporanei e ultra-moderni); oltre che essere un punto di riferimento per la ‘attualizzazione’ di quello che viene ritenuto essere il messaggio senza tempo di Dio in risposta alle più diverse contingenze umane; può/deve essere accostato come una sorta di cartina al tornasole per ogni tempo e, dunque, anche di questo tempo. La Bibbia ebraica e cristiana non va letta e riletta come una sorta di vademecum divinatorio sul verso dove andare; né come una sorta di ‘cartucciera’, da cui attingere per sparare a zero contro le riletture e interpretazioni, che, dentro o fuori il territorio strettamente esegetico, non hanno mai smesso di provare e riprovare le più svariate, anche fantasiose, interpretazioni e attualizzazioni. Ma un possibile punto di vista, sì. Punto di vista redatto con gli occhi e la prospettiva dell’Altissimo, per chi crede, ma anche punto di vista in grado di suscitare nel tempo interrogativi e domande, tentativi di attuazione e traduzione pratica, per esempio provando a guardare, se possibile, le cose dal punto di vista della fantasia di Dio».
Riporto per esteso queste parole scritte dal filosofo ed esegeta Pasquale Giustiniani – tra i massimi esperti di Sacre Scritture dei nostri tempi –, perché mi sembrano offrire una chiave di lettura innovativa e coraggiosa del Libro dei Libri. Al Signore ho visto attribuire, a torto o a ragione, nei più diversi contesti, pressoché tutti i valori, le emozioni e le potenzialità dell’uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, e non solo quelli positivi: amore, forza, giustizia, misericordia, ma anche ira, vendetta, solitudine, dubbio, impotenza, rimorso, dolore. Solo due, finora, mancavano all’appello: paura e fantasia. Dio – secondo qualcuno – può soffrire e sbagliare, ma nessuno ha mai ipotizzato che possa avere paura. Può creare, ma senza ‘fantasia’. Ma è poi vero?
Le parole di Giustiniani sono l’inizio della prefazione di un libro di grande suggestione e interesse, scritto dal teologo Michele Ciccarelli: Coscienza e potere. Una riflessione antropologica contemporanea a partire da racconti biblici (La Valle del Tempio,Napoli, 2025, pp. 418, euro 20).
Il volume passa in rassegna in serie di pagine bibliche, molto note (quali il fratricidio di Caino, il rapporto tra Giuseppe e i suoi fratelli, la vigna di Nabot, la torre di Babele, il sopruso di re Davide per sposare Betsabea, e altri), tutte prese in considerazione dal punto di vista del rapporto tra coscienza e potere.
In questi episodi, infatti, vediamo degli uomini che esercitano una forza, un potere, ma, nel farlo, violano la legge divina, che dovrebbe essere loro indicata dalla voce della coscienza. «Normalmente», annota l’autore, «quando si parla di potere in senso generico, sentiamo un senso di fastidio e siamo portati a pensare a tutte le volte che questo potere è stato desiderato dall’uomo, per esso si è tradito, ucciso e oppresso». E siamo quindi indotti a pensare che “il potere abbia qualcosa di intrinsecamente negativo, semplicemente il male”. «Tuttavia», prosegue, «se rileggiamo il passo biblico della creazione dell’uomo, notiamo che le prime parole che Dio dice all’uomo e alla donna sono, da una parte, quelle di riprodursi e riempire la terra, dall’altra, quelle di soggiogare e dominare». «Il potere, quindi, è qualcosa che Dio concede all’uomo perché domini sugli animali (i pesci, gli uccelli e gli esseri viventi che strisciano sulla terra) e sia il padrone del giardino da coltivare e custodire».
Le pagine interpretate da Ciccarelli hanno sollecitato, da millenni, molteplici letture riguardo a quelli che appaiono dei momenti di rottura del rapporto di solidarietà tra il Creatore e l’uomo, nonché di quello tra un singolo uomo e i suoi simili. Momenti che possono essere visti come delle degenerazioni del cd. “potere”, e la sua trasformazione in abuso e violenza. I racconti dell’uccisone di Abele e di Uria e dell’ingiusta esecuzione di Nabot appaiono come narrazioni di una cesura tra potere e coscienza: «Caino, Davide e Acab sono chiusi alla parola di Dio; non parlano con lui prima di agire, non ascoltano la sua voce che parla alla loro coscienza».
Questa rottura viene interpretata dall’autore non solo come una negazione del rapporto tra l’uomo e il Creatore, ama anche come la frattura di un patto primordiale di convivenza che può essere fatto coincidere con una sorta di “legge di natura”. «Nonostante ci siano alcuni che negano l’esistenza di valori universali validi per qualsiasi essere umano o che esista un diritto naturale, ma soltanto un diritto positivo che deriva la sua legittimità dall’autorità dello Stato», osserva l’autore, «il fatto che si parli spesso di diritti umani ci impone una riflessione sullo statuto ontologico di tali diritti, i quali non possono che rimandarci all’essenza della natura umana. Senza questo riferimento fondamentale diventa difficile parlare di diritti dell’uomo validi universalmente per tutti gli uomini della terra e di una legge naturale che orienta il loro comportamento».
Il sottoscritto appartiene proprio alla categoria di coloro che negano l’esistenza di una legge morale che possa essere considerata legge di natura, per il semplice motivo che non crede che l’uomo sia un qualcosa di altro o esterno rispetto alla natura, a che possa quindi essere depositario di una legge immutabile intrinsecamente diversa da quelle che regolano i moti degli astri, i metabolismi delle piante o i comportamenti e degli animali. Tuttavia, è senz’altro vero che l’uomo, una volta diventato una creatura culturale, ha costantemente cercato l’appiglio di una norma valoriale sottratta alle contingenze del tempo. E ha cercato così di inscrivere la propria “cultura” nel perimetro della “natura”, trasformando la propria transeunte “legge morale” in eterna “legge naturale”.
Nella predominante tradizione ebraica, com’è noto, il concetto di “legge di natura” è stato rifiutato, in quanto considerato confliggente con l’idea della Rivelazione divina, e il pensiero di coloro che hanno cercato di conciliare le due cose (da Filone a Spinoza) è stato condannato. Tuttavia, quella che l’autore chiama «coscienza», la cui lacerazione emerge dalle pagine bibliche rievocate in questo libro, sembra richiamare qualcosa che va al di là della mera parola del Dio unico. Ma quel che più interessa, in queste antiche, sempre attuali narrazioni, è il modo in cui questa lacerazione viene narrata. Non basterebbe, per ricordare la legge (naturale o divina) il semplice comandamento che impone di non offendere l’integrità e l’inviolabilità della vita umana? Perché la legge, la halachah, ha sempre bisogno anche di una narrazione, della haggadah?
La risposta a una siffatta domanda sarebbe difficile. E imporrebbe di addentrarsi nel terreno, appunto, della “fantasia di Dio”, o della “fantasia dell’uomo”.

Francesco Lucrezi, storico

(Nell’immagine: un celebre dipinto della Torre di Babele di Pieter Bruegel il Vecchio)