ISRAELE – Scuole e asili chiusi, le routine sospese dei ragazzi

Il figlio più piccolo di Micol Marascalchi, sei anni, ha costruito con i Playmobil un mondo parallelo: rifugi, sirene, soldati, attacchi da Hamas, Hezbollah, Iran. «Riporta tutto nei suoi giochi», racconta Micol da Netanya, città sul mare a nord di Tel Aviv. «Fa molte domande, è molto attento. Il tema della guerra non si può ignorare, per cui cerco di spiegare la situazione in modo adatto a un bambino della sua età: che ci sono soldati che ci proteggono, che non siamo soli».
Netanya, abitualmente affollata di bagnanti e famiglie in vacanza, oggi è quasi immobile. Spiagge chiuse, scuole ferme, ritmi quotidiani sospesi da una guerra che ha cancellato ogni previsione. In casa Marascalchi i figli sono quattro: 6, 10, 13 e 15 anni. «I due più grandi non escono mai», spiega. «Da quando è iniziato la guerra con l’Iran il 13 giugno scorso, sono usciti una sola volta. Seguono le notizie tramite amici, video, social, e preferiscono restare chiusi nelle loro stanze, al sicuro. La scuola ha chiuso con una settimana di anticipo e tante attività a cui avrebbero voluto partecipare sono saltate».
Micol è anche educatrice in un asilo per bambini autistici a Hadera, una trentina di chilometri più a nord. In condizioni normali, l’anno scolastico si sarebbe concluso il 30 giugno, per lasciare spazio, da luglio, al centro estivo. «Avevamo già ricevuto il budget, avevo programmato le attività, preparato tutto», racconta. «Ma il centro è rimasto chiuso. Nessuno ha riaperto. E per i bambini autistici la sospensione della routine è ancora più complessa da gestire».
Anche per Yoel, il figlio cerebroleso di Alessandro Viterbo, la chiusura del centro diurno a Gerusalemme ha segnato un cambiamento netto. In tempi normali, viene accompagnato ogni mattina dal badante al centro dell’associazione Tsad Kadima, dove trascorre la giornata tra attività educative e terapie. «Adesso, non essendoci attività al centro — perché hanno vietato tutto per ragioni di sicurezza — mio figlio è a casa», racconta Viterbo. «È diventato più silenzioso, più chiuso in se stesso. Ma segue tutto, guarda le notizie. È molto consapevole di quello che succede».
Sempre a Gerusalemme, la casa di Roberto Steindler è diventata punto di riferimento per alcuni dei suoi otto nipoti. Due di loro, appena diciannovenni, sono prossimi all’arruolamento: uno nei paracadutisti, l’altra nelle comunicazioni dell’aeronautica. «Sono pronti. Hanno le idee chiare. Mio nipote ha detto: “Devo fare la mia parte per il paese”. Non c’è esitazione. La figlia vuole entrare nel reparto medico, come la madre. Sono entrambi molto determinati, forse più di quanto lo fossimo noi», racconta. «Anche i più piccoli sanno tutto. Uno, che ha otto anni, dopo una sirena si è messo il profumo e ha detto: “Se me ne vado, voglio andarmene profumato”. È il loro modo per dire: ci siamo anche noi. Ma senza panico, senza drammi. Non sento ansia, né voglia di fuggire».
In casa Marascalchi, la giornata è un equilibrio instabile tra attività improvvisate e continue interruzioni. «Abbiamo montato una piscinetta sul terrazzo per i piccoli, giochiamo, cuciniamo. La seconda, che ha dieci anni, ha organizzato un “centro estivo casalingo” per il fratellino: prepara schede, si inventa attività per tenerlo impegnato», spiega Micol. «Proviamo a creare una routine alternativa, ma non è come durante il Covid: allora eravamo confinati in casa, ma ci sentivamo protetti. Ora neanche le case sono sicure al cento per cento. I nostri figli dormono nella stanza del tredicenne, che è anche il mamad, il rifugio. Loro dormono sereni. Io, dal 13 giugno, non riesco più a chiudere occhio. Anche nelle notti senza sirene, resto sveglia».
Viterbo, medico e riferimento di Tsad Kadima, conosce quella stanchezza. «Stanotte, per esempio, ci siamo alzati quattro volte per i preallarmi. Mio figlio dorme profondo, ma io lo prendo in braccio, lo metto sulla sedia e siamo pronti a entrare nella stanza sicura. Vivendo al piano terra, abbiamo il rifugio vicino. Quando suona la sirena, dobbiamo solo essere rapidi. Siamo attrezzati». Ma il peso della responsabilità resta. «Il mio problema è che da una parte devo andare a lavorare, dall’altra non voglio lasciare mio figlio solo. Sabato scorso, per un’urgenza in ospedale, ho dovuto lasciarlo a casa. Mia moglie da sola non ce l’avrebbe fatta a portarlo nella stanza blindata. Ho dovuto gestire quel rischio».
Con le notizie che si susseguono — tra un cessate il fuoco e una tregua violata — nessuno fa programmi a lungo termine. «Si vive alla giornata», sottolinea Steindler. «Avevamo in programma una vacanza in Italia con due nipoti, era tutto pronto, ma ovviamente è saltato. Una delle ragazze doveva andare in campeggio a Roma, anche quello saltato. Ora si aspetta, si guarda cosa succede. Ma quello che mi colpisce è che nessuno si lamenta: i ragazzi capiscono. La vancanza italiana per mio nipote sarebbe stata l’ultima prima di arruolarsi. Mi ha semplicemente detto: “Nonno, così va la vita”».
Per Yoel la mancanza di stimoli è difficile da compensare. «Quello che forse lo butta un po’ giù è che tutti i programmi che avevamo sono stati annullati o rimandati: campeggi, concerti, ristoranti, gite», racconta suo padre. «È un ragazzo che ama uscire, divertirsi. Anche il Tempio Italiano a Gerusalemme, dove andavamo ogni sabato, è chiuso. Gli mancano quelle cose lì. Quelle che fanno sentire che la vita va avanti». Un momento di serenità in queste ore a Yoel lo ha portato un progetto di terapia con i cani. «Speriamo sia d’aiuto e soprattutto che tutto riapra presto», conclude Viterbo.
Ogni famiglia trova il modo di tenere un proprio ritmo, un centro. Per Micol è la preghiera. «Siamo una famiglia religiosa. Preghiamo ogni giorno. Recitiamo i Tehillim, i Salmi. Lo facciamo insieme, con i bambini. È il nostro modo di trovare forza. Ma la paura c’è, comunque. Anche con la fede, è impossibile non sentirla».

Daniel Reichel