SOCIETÀ – Se gli ebrei e Israele escono dai cancelli di Auschwitz

Israele sta vivendo ciò che Shmuel Trigano definisce una “guerra nuova”, una cesura storica, culturale, e simbolica che rompe con la postura difensiva imposta al popolo ebraico dal dopoguerra in poi. Non si tratta solo di un conflitto militare ma della fine, sostiene Trigano, delle “frontières d’Auschwitz”, un concetto che egli stesso riprende da Abba Eban per descrivere i limiti invisibili ma potentissimi imposti alla sovranità ebraica nel nome della memoria della Shoah. «Nous sommes en guerre. Mais pas comme les autres. Cette guerre-là est une guerre totale» (Siamo in guerra. Ma non come le altre volte. Questa guerra è una guerra totale), scrive il filosofo francese su La Tribune Juive. Non solo guerra dei corpi, ma delle idee e delle rappresentazioni. E Israele oggi rompe il silenzio e rivendica non soltanto il diritto di difendersi, ma quello di vincere, di annientare chi ne minaccia l’esistenza. Un atto che, per l’Occidente, è disturbante proprio perché sovverte l’architettura morale che ha tenuto insieme il dopoguerra: l’ebreo vittima, il sopravvissuto, il silenzioso. Questa nuova guerra, iniziata il 7 ottobre 2023 con l’assalto sanguinario di Hamas, non è più confinabile alla striscia di Gaza. È una guerra “décloisonnée”, espansa, che attraversa Libano, Siria, Iraq, Yemen, e persino i campus americani. Essa costringe Israele a un nuovo immaginario strategico, capace di andare oltre l’attesa passiva, la diplomazia sterile, l’eterna richiesta di giustificazione. Secondo Trigano per decenni l’esistenza stessa di Israele è stata tollerata dalle élites internazionali solo a condizione che essa restasse all’interno di confini morali ben delimitati. «Les démocraties occidentales avaient conditionné leur soutien à Israël à sa condition de victime. Dès qu’il s’en écartait, elles étaient perdues» (Le democrazie occidentali avevano condizionato il loro sostegno a Israele alla sua condizione di vittima. Appena se ne discostava, esse erano disorientate). Il trauma della Shoah, sostiene Trigano, non ha reso Israele più libero, lo ha stretto in una cintura etica soffocante dove ogni atto di autodifesa veniva misurato alla luce della sua “proporzionalità”. Un principio che di fatto impedisce allo Stato ebraico di esercitare pienamente il suo diritto sovrano. È in questo quadro che Trigano denuncia non solo l’ipocrisia delle cancellerie europee, ma anche quella parte della diaspora ebraica che per timore o per desiderio di accettazione «interiorizza l’accusa antisemita». L’auto-colpevolizzazione diventa una forma di rispetto verso l’universale, un gesto di buona condotta verso il mondo a prezzo dell’abbandono della propria identità storica. «Il conflitto con Hamas – scrive ancora – è diventato una guerra d’indipendenza morale». Il coraggio di Israele non è soltanto militare, ma ontologico: si manifesta nella decisione di uscire da una condizione minoritaria, di rinunciare al ruolo di testimone per assumere quello di attore. Un passaggio scomodo per un’Europa che ancora oggi trova più rassicurante l’ebreo che tace e ricorda piuttosto che quello che prende parola e agisce. Perché riconoscere il diritto di Israele alla vittoria significherebbe, per l’Occidente, interrogare la propria responsabilità nei confronti del passato, ma anche del presente. Trigano invita a ridefinire l’idea stessa di ebraismo nel mondo contemporaneo. Non più figura del lutto eterno, ma soggetto di piena cittadinanza e potere. L’uscita dalle “frontières d’Auschwitz” è dunque un processo di liberazione: non dalla memoria, ma dalla sua strumentalizzazione. Non dalla storia, ma dall’uso politico della colpa, e in un tempo in cui l’antisemitismo si riappropria dei linguaggi della giustizia, del diritto e persino dei diritti umani, la sfida che Israele affronta è quella di ricostruire una legittimità non come concessione, ma come fatto. La nuova guerra che si combatte è anche una battaglia per il significato dell’identità ebraica nel XXI secolo il cui esito riguarda tutti.