STAMPA – A Fiesole una riflessione su Israele nei media fra stilemi e onestà

Presso l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole si è tenuto un convegno (The Israeli-Palestinian conflict in the European printed press) dedicato alla rappresentazione del conflitto israelo-palestinese nella stampa cartacea europea. Si è trattato di una riflessione sul rapporto tra parola, politica e memoria. Un rapporto che, quando si tratta di Israele, si carica di significati che vanno oltre la cronaca.

Il giornalismo non è spettatore neutrale: seleziona, interpreta, costruisce realtà. E la stampa, soprattutto quella tradizionale, conserva ancora un peso simbolico e culturale che ne fa uno strumento decisivo nella formazione dell’immaginario europeo. Il modo in cui il conflitto viene raccontato non è mai solo un fatto tecnico o stilistico: è una forma di presa di posizione, talvolta implicita, altre volte dichiarata. È evidente, scorrendo le pagine di molti quotidiani, come la narrazione si organizzi spesso secondo schemi ricorrenti e dicotomici: Israele come potenza, i palestinesi come vittime; la forza contro la fragilità; la sicurezza contro il diritto. Termini come “proporzionalità”, “blocco”, “rappresaglia”, se isolati dal contesto e dalla storia, finiscono per irrigidire la complessità in giudizi morali precostituiti. Il lessico giornalistico non è mai neutro, e le parole scelte – o evitate – concorrono a definire i contorni del pensabile. È raro, ad esempio, che si parli esplicitamente di terrorismo quando si tratta di Hamas, così come è frequente che la voce israeliana venga rappresentata solo nella sua dimensione istituzionale o militare. Ma Israele è anche altro: una società viva, contraddittoria, democratica, attraversata da tensioni interne e da una lunga memoria diasporica che spesso resta fuori dal discorso pubblico europeo. Raccontare questo conflitto significa anche interrogarsi su come l’Europa si rapporta alla propria storia, alla Shoah, alla colpa, alla costruzione di una coscienza morale che, a volte sembra trovare nella critica a Israele una forma catartica di auto rappacificazione. La distanza non è solo geopolitica: è affettiva, simbolica, spesso inconsapevolmente culturale. È qui che il ruolo della stampa torna centrale: non per prendere posizione, ma per assumersi la responsabilità di un linguaggio più preciso, di un’informazione più contestualizzata, di uno sguardo meno appiattito sul binarismo etico. Perché un relatore ha ricordato che, come scriveva Amos Oz, non si tratta di uno scontro tra bene e male, ma tra due diritti. E raccontarlo con onestà è forse uno dei compiti più urgenti del giornalismo europeo di oggi.