OSTAGGI – Yossi Sharabi, tra religione e sport estremi

Yossi Sharabi, 53 anni, era tra i fondatori della piccola sinagoga del kibbutz Be’eri. Nella comunità al confine con Gaza era arrivato poco più che ventenne, per seguire il fratello minore Eli. Cresciuti insieme a Tel Aviv, con appena due anni di differenza, avevano un legame speciale. «Yossi era il cuore, Eli la mente», ha raccontato Sharon, il più giovane dei tre fratelli. «Quando eri con Yossi, non potevi essere triste o arrabbiato, perché ti abbracciava subito e ti faceva sentire al sicuro». Religioso e rassicurante, Yossi era anche animato da uno spirito avventuroso: «Andavi sul fiume più pericoloso del mondo e lo trovavi lì a fare rafting. Negli ultimi anni si era dedicato al surf», ha ricordato Sharon, intervistato da Haaretz.
Dipendente, poi responsabile della sicurezza alla tipografia Be’eri Printers, Yossi aveva trovato nel kibbutz la sua compagna di vita: Nira, infermiera presso l’ambulatorio locale, con cui aveva avuto tre figlie, Yuval, Ofir e Oren. La loro era una vita comunitaria scandita dai rituali familiari, condivisi con Eli, sua moglie Lianne e le loro due figlie: la cena del venerdì, le mattinate di sabato in piscina, i turni di volontariato. Una quotidianità spezzata il 7 ottobre 2023, quando le case dei due fratelli Sharabi sono state attaccate da Hamas.
In momenti diversi, Eli e Yossi sono stati rapiti dai terroristi palestinesi. Entrambi portati vivi a Gaza, ignari del destino delle rispettive famiglie. Eli, liberato dopo 491 giorni di prigionia, ha scoperto solo al rientro che la moglie e le figlie Noiya, 16 anni, e Yahel, 13, erano state uccise il giorno stesso dell’attacco.
Yossi non è mai stato liberato. È morto durante la prigionia, ma per settimane la sua famiglia ha vissuto nell’incertezza sulla sua sorte. Era detenuto in una casa con altri ostaggi, tra cui Noa Argamani, salvata nel giugno 2024 dall’esercito israeliano. «Quando ci siamo incontrati per la prima volta, era terrorizzato: non sapeva nulla di Nira e delle ragazze. Ma col tempo si è preso cura di me. Mi ascoltava, mi faceva sorridere. Era pieno di umiltà», ha raccontato Argamani.
Yossi non sapeva del coraggio di sua moglie. Radunata con le tre figlie e altri vicini in uno spiazzo del kibbutz, Nira aveva atteso il momento giusto per fuggire. Quando i terroristi si sono distratti, ha afferrato una pietra, rotto la finestra di una casa già incendiata e vi si è rifugiata con le figlie e altre sette persone. Sono rimasti in silenzio per otto ore, nascosti tra le stanze annerite dal fumo, finché i soldati israeliani li hanno trovati e messi in salvo.
Per mesi Nira e le figlie si sono battute per ottenere il rilascio di Yossi. Il fatto che fosse vivo le dava forza. «Dopo aver scoperto della sua morte, quella fede è andata in frantumi», ha raccontato a Haaretz. «Cerco di mantenere il controllo, di apparire forte, e non esprimo le mie opinioni per non essere etichettata politicamente. Ma anche quando non si vede, sono piena di rabbia». Una rabbia rivolta al governo: «Yossi ci è stato portato via. Sarebbe stato possibile liberarlo con l’accordo poi non attuato a metà 2024. Era ottimista, sicuro che sarebbe tornato, ci hanno raccontato altri ex ostaggi. E invece è stato abbandonato dai nostri leader. Ci resta un enorme vuoto nel cuore e il dolore delle mie figlie».
Sharabi è morto nel febbraio 2024, quando l’edificio in cui era detenuto a Gaza è crollato durante un bombardamento dell’esercito israeliano. In quel momento si trovava con Noa Argamani e Itay Svirsky. È stata la stessa Argamani a raccontare: l’esplosione, il crollo improvviso, le grida sotto le macerie. «Ho urlato, ho sentito anche Yossi gridare. Poi più nulla. Quando è stato estratto, era già troppo tardi». La sua salma è ancora nelle mani di Hamas.
«Mi manca la vita di prima, la semplicità quotidiana. La vita con Yossi, il cavaliere dei miei sogni. L’uomo con cui avevo progettato di viaggiare in camper in Australia, con cui immaginavo di invecchiare. Ora le mie aspettative sono molto più modeste: vorrei solo seppellirlo in un luogo degno, piangerlo come si deve e ricominciare a vivere, in modo diverso», ha spiegato Nira.
L’unico momento di sollievo per la famiglia è stato il ritorno di Eli, diventato un simbolo della campagna per la liberazione degli ostaggi. Nira e le figlie vivono ora con altri sopravvissuti di Be’eri in una sistemazione provvisoria nel kibbutz Hatzerim.
Ofir, la figlia più giovane, è tornata a maggio da una missione a New York con altri giovani israeliani. A chi le chiede perché continua a esporsi in pubblico, risponde: «Ho perso mio padre, ma avrebbe potuto essere diverso. Avrei potuto essere una ragazza di 16 anni il cui padre è tornato dalla prigionia. Ora sono una ragazza di 16 anni che lotta affinché suo padre abbia una tomba. In quale mondo ha senso tutto questo?! La mia vita si è fermata il 7 ottobre e da allora non sono più la stessa. Vorrei tanto svegliarmi in una realtà diversa, migliore. Non smetterò di lottare perché questo accada, per mio padre, per tutti noi».

d.r.