SCAFFALE – Il gioco di ruolo del terrorismo

Le parole ‘terrorismo’ e ‘terrorista’, com’è noto, invadono in un modo pervasivo il dibattito contemporaneo. Tutte le generazioni oggi viventi, infatti, sono abituate a vedere ricorrere tali termini, purtroppo, quasi quotidianamente, nel linguaggio della cronaca e dell’analisi politica, usate nei modi più disparati, con riferimento a realtà anche molto diverse le une dalle altre. La definizione di tali vocaboli è oggetto di diverse interpretazioni, così come grande divergenza sussiste riguardo all’identificazione di quali soggetti e quali atti possano essere con essi identificati. Ma nessuno può dubitare, in ogni caso, che il terrorismo e i terroristi esistano, e facciano molto rumore.
Al di là delle differenze di interpretazione e analisi, è da registrare che c’è sempre stata una radicale differenza di giudizio, rispetto al fenomeno del cd. terrorismo, a seconda di chi lo pratichi, e nei confronti di chi.
In Italia abbiamo vissuto l’orrenda stagione delle stragi di matrice neofascista (Piazza Fontana, Piazza della Loggia, Italicus, stazione di Bologna e altre) e poi degli anni piombo, con assassini politici maturati in prevalenza (ma non esclusivamente) in ambienti di estrema sinistra. In entrambi i casi si è trattato, in grande prevalenza, di una volenza nostrana, perpetrata da italiani nei confronti di altri italiani (o colpiti come specifici individui, oppure, come si dice “nel mucchio”). Anche se gli esecutori di questi gesti criminali (soprattutto quelli dell’eversione di sinistra) hanno certamente goduto di ampie protezioni e di cospicue fasce di sostegno (o di malcelata simpatia) popolare, non c’è comunque dubbio sul fatto che la stragrande maggioranza della popolazione non si sia riconosciuta in questi gesti, e li abbia condannati e contrastati. Quasi tutti si sono detti d’accordo sul fatto che i terroristi erano dei criminali, che andavano neutralizzati e puniti. Il dissenso non verteva su questo, ma sulla domanda di “chi” fossero i terroristi: a sinistra, per molto tempo, si è negata la matrice comunista del fenomeno (le Brigate Rosse venivano chiamate, su l’Unità, “Brigate nere”, e si è sempre favoleggiato sul sostegno occulto della NATO, della DC, del grande capitale ecc.), mentre a destra si è negato che i terroristi neri avessero niente a che fare, per esempio, col Movimento Sociale Italiano. Quasi nessuno, almeno che non fosse un condannato o un ricercato, approvava apertamente la pratica terroristica.
Quando, però, dentro e fuori dai confini del nostro Paese, i carnefici o le vittime non sono stati o non sono italiani, e le azioni violente venivano o sono collegate a un qualsivoglia focolaio di conflitto internazionale, questa unanime condanna si è dissolta e si dissolve immediatamente. Vediamo così personaggi macchiatisi dei più orrendi crimini, del tutto avulsi da ogni logica di guerra (con uccisioni e stragi deliberate di civili, bambini, donne, anziani), essere elevati al rango di combattenti, le cui azioni devono essere giudicate soltanto attraverso le categorie della politica, mai del codice penale o della morale. E vediamo non solo che i terroristi non appaiono carnefici, ma anche che le loro vittime non sono considerate tali. Non si tratta, come a Purìm, di “non distinguere più tra il saggio Mardocheo e il perfido Amàn”, ma di scambiare, con un disinvolto gioco di ruolo, le posizioni dei due.
Accade così che il Paese che da sempre, caso unico al mondo, è il quotidiano, eterno bersaglio della violenza terroristica, ossia Israele (ricordiamo solo alcuni dei più eclatanti, tra le migliaia di episodi: Monte Scopus [1948], Ma’alot [1974], Monaco [1972], Entebbe [1976], fino alla voragine di Nova e Be’eri, [2023]), venga cinicamente definito definito “stato terrorista”. Ma lo stesso obnubilamento avviene anche quando a essere colpiti sono dei cittadini o dei beni italiani, da mani straniere e in nome di esotiche, oscure ideologie di morte (solo per fare qualche esempio: Fiumicino [1973], Tempio di Roma [1982], Achille Lauro [1985] ecc.).
La situazione si è però complicata da quando, a partire dall’11 settembre del 2001, il terrorismo internazionale di matrice islamica ha cominciato a colpire in modo sempre più violento le stesse capitali occidentali ed europee. L’opinione pubblica, spaventata, ha cominciato a cambiare la propria percezione del fenomeno, avvertito come un pericolo reale e concreto, e non solo per “gli altri”.
Tuttavia, il fenomeno continua a essere alquanto poco conosciuto e studiato nella sua natura, nelle sue radici storiche, nelle sue dimensioni. Da apprezzare, perciò, risulta la pubblicazione di un libro di grande interesse, recentemente presentato presso la Camera dei Deputati e scritto dall’analista geopolitica Valentina Spata, con prefazione di Laura Quadarella Sanfelice di Monteforte: Il terrorismo internazionale jihadista (Edizioni Sopher, Teverola, pp. 156, euro 16).
Il volume offre una ricostruzione sintetica, ma molto chiara e accurata, del complesso fenomeno della violenza terroristica riconducibile, in vario modo, al fondamentalismo religioso islamico, la cui complessa e articolata natura viene analizzata nelle sue molteplici dimensioni: dalle radici storiche del alla definizione del termine ‘terrorismo’, dalle Organizzazioni internazionale preposte al contrasto del fenomeno alle varie sigle con le quali esso si autodefinisce o viene definito (OLP, FPLP, Jihad, Al Qaeda, ISIS-Daesh, Stato Islamico e tante altre).
Dalla lettura del volume emergono una serie di informazioni molto utili, alcune delle quali poco conosciute al grande pubblico, altre teoricamente note, ma fatalmente destinate all’oblio o alla rimozione. Perché la sconsolante sensazione che si ricava dal libro è quella di un fatale cupio dissolvi da parte del cosiddetto Occidente, che non sembra avere nessuna seria di volontà di comprendere davvero il fenomeno, considerato semplicemente (analogamente a quello che Clausewitz disse della guerra) come una forma di politica svolta con altri mezzi. Ma tale idea, se può essere valida come una delle chiavi di interpretazione di questa realtà, è completamente sbagliata nel momento che viene generalizzata come l’unica chiave di lettura, o quella primaria e assorbente. Se, infatti, è vero che il terrorismo è anche una forma di politica, è anche vero che dalla politica è lontanissimo, dal momento che il rapporto tra fìni e mezzi da esso usato è completamente diverso.
Quando, per esempio, in qualche boulevard francese un camion fa strage di passanti, provocando decine di morti e di mutilati, tutti i dotti commentatori iniziano a chiedersi quali siano gli obiettivi perseguiti dagli autori del massacro: sabotare questi o quegli accordi, mandare un segnale a questo o a quello, spostare questo o quel governo in questa o quella direzione. Quella strage, quei morti sarebbero un mezzo per raggiungere questo o quel fine. Nessuno, però, si chiede mai se e in che misura quei corpi dilaniati siano non un mezzo, ma un fine. Se, e in che misura, la morte, il dolore, la disperazione bastino a spiegare il gesto. Una simile lettura apparirebbe del tutto insufficiente, in quanto del tutto irrazionale, e viene quindi rigettata, dal momento che la politica è, o dovrebbe essere, qualcosa di razionale. Un modo di ragionare del tutto errato. Anche ammesso che la politica sia sempre qualcosa di razionale, il terrorismo, certamente, non lo è.
Perciò sono molto pessimista sull’esito della presunta lotta contro il terrorismo (ammesso che esista). Non si può combattere ciò che non si conosce, se non c’è diagnosi non ci può essere cura. Tanto meno se, come medici e infermieri, si chiamano coloro che la malattia la diffondono e la finanziano. È assurdo che ciò accada? No, è normalissimo, è un altro gioco di ruolo. Ieri ho fatto il cattivo, oggi faccio il buono, domani si vedrà.
Francesco Lucrezi, storico