OSTAGGI – Aryeh Zalmanovich, tra i fondatori di Nir Oz

Cresciuto a Haifa nel segno del sionismo socialista dell’Hashomer HaAtzair, Aryeh Zalmanovich a vent’anni non ancora compiuti decise di trasferirsi a Nir Oz. Era il 1957 e il kibbutz aveva solamente due anni di vita. Aryeh ne divenne progressivamente una delle colonne. «Per sessant’anni si è alzato ogni giorno alle quattro e mezza del mattino per arare, seminare e raccogliere», ha raccontato suo figlio Boaz. «Anche negli anni della più aspra siccità, anche quando aveva dieci secondi per correre a rifugiarsi dai razzi di Hamas, non ha mai pensato di lasciare Nir Oz. Il kibbutz era la missione della sua vita».
86 anni, mani callose, camicie da lavoro e una routine fatta di lavoro nei campi, senso del dovere e attaccamento alla comunità, Aryeh – “Zalman”, come lo chiamavano tutti – era uno degli ultimi testimoni del sogno fondativo dei kibbutznikim. Boaz, suo figlio maggiore, ricercatore presso il dipartimento di storia dell’esercito israeliano, lo aveva incontrato pochi giorni prima, durante la festa di Sukkot, per una conferenza sui fallimenti della guerra dello Yom Kippur. Dopo la lezione, erano andati a cena insieme. «Una frittata, pomodoro e ricotta. Questo è quello che si mangia da Zalman», ha ricordato Boaz. L’ultima telefonata tra padre e figlio è arrivata la mattina del 7 ottobre, alle 9:20: Aryeh lo aveva chiamato per dirgli che i terroristi erano dentro Nir Oz.
È l’ultimo contatto con la famiglia. Poco dopo, Hamas ha pubblicato un video: si vede Aryeh, vivo, mentre viene rapito. Come hanno poi mostrato diversi video, Zalmanovich è stato sequestrato con estrema brutalità, colpito alla testa e portato a Gaza su una moto. Ha trascorso i primi quaranta giorni di prigionia in una struttura ospedaliera nel sud della Striscia, insieme a Kaid Farhan al-Qadi, beduino israeliano, anche lui tra i sequestrati il 7 ottobre. I due hanno condiviso la stessa stanza e la stessa attesa, instaurando un legame profondo. «Mi ha raccontato della sua casa nel kibbutz, dei suoi amici, della sua nipote che amava tanto. Mi ha parlato della sua infanzia», ha raccontato al-Qadi, salvato dall’esercito israeliano dopo 326 giorni di prigionia a Gaza. «Il giorno della sua morte, è riuscito a dire addio a tutto. Al kibbutz, alla sua famiglia, a me. È morto a mezzanotte, al mio fianco».
Durante la prigionia, Aryeh non ha mai ricevuto cure adeguate. «Ha mangiato e bevuto solo tè e biscotti. A un certo punto ha smesso di mangiare. Ha iniziato a deperire lentamente, fino a quando il suo corpo non ha più retto», ha spiegato il figlio minore, Yoav. La conferma della morte è arrivata con un video, diffuso dai rapitori, che ne mostra il corpo senza vita. La sua salma da 636 giorni si trova a Gaza.
La famiglia chiede di riportarla a casa, ma soprattutto insiste: prima devono tornare gli ostaggi vivi. «Non smetteremo di vivere perché nostro padre non tornerà», ha dichiarato Boaz. «Ma non possiamo accettare che tutto questo venga dimenticato. Mio padre è morto lontano dai campi che amava, in un luogo straniero, senza una mano che lo confortasse. È morto nella paura, circondato dall’odio. Questo non è accettabile. Serve un accordo. E serve adesso».
d.r.