Quando non ci odiavano

Poche centinaia di persone nate in Iran, in gran parte a Mashad, città santa dell’Islam sciita, ma milanesi da almeno 45 anni. Sono gli ebrei persiani, una delle componenti non italiane della comunità ebraica. Afshin Kaboli è nato a Teheran nel 1971 da genitori mashadi: la sua famiglia si è trasferita in Italia un po’ alla volta, prima e dopo la Rivoluzione islamica. «Noi ci siamo mossi nel 1978, raggiungendo degli zii che abitavano già a Milano: quando videro in televisione i disordini, i morti e le città in fiamme convinsero mio padre a lasciare che io, mia madre e mia sorella partissimo per Milano per poi tornare in Iran, una volta calmate le acque». All’avvento di Khomeini fece invece seguito lo scoppio della guerra con l’Iraq cosicché fu il padre di Afshin a unirsi al resto della famiglia a Milano. «Non fece in tempo né a chiudere la casa né l’azienda». Rimase la nonna paterna, ma anche lei dopo qualche anno raggiunse l’Italia. Anche la famiglia Kaboli ha subito il trauma del distacco, al pari di tanti ebrei mizrahi che, dal Marocco all’Afghanistan, hanno dovuto più o meno all’improvviso lasciare il loro paese. Ma nel racconto di Afshin, come in quello di altri ebrei persiani, vi è sì la nostalgia per una patria persa ma anche il ricordo di una convivenza pacifica con il resto della popolazione.
«Anche a Mashad, dove pure il fanatismo non mancava, gli ebrei erano trattati con rispetto, tanto più quando al potere c’era Reza Pahlavi che era pro Israele». Un rispetto che non è venuto meno con l’avvento degli ayatollah fermo restando l’odio tanto profondo quanto aperto di Khomeini prima e di Khamenei dopo per “i sionisti”. Un odio che ha permesso ciclicamente al regime di incriminare alcuni ebrei di essere agenti segreti di Israele. Due ebrei iraniani furono uccisi all’inizio della Rivoluzione islamica, Habib Elghanian e Avraham Boruchim. Nel 1994 il 77enne Feysollah Mechubad fu messo a morte con l’accusa di spionaggio a favore dei “sionisti”. Nel 1994 il ventenne Arvin Ghahremani, ebreo di Kermanshah, fu impiccato con l’accusa di aver ucciso il musulmano Amir Shokri.
«Gli ebrei in Iran tengono un profilo basso, e non parlano bene di Israele. Però si sposano, celebrano milot e bar mitzvah e il rabbino della comunità mashadi di Teheran legge la Meghillah di Ester in diretta su Instagram». Una libertà segnale di un’ampia benevolenza da parte della popolazione iraniana. Il che non ha impedito agli ebrei di emigrare in cerca di miglior fortuna, soprattutto a New York e Los Angeles, come anche in Israele.
E se Afshin non è più tornato a Teheran da quando la lasciò, altri hanno mantenuto il passaporto e visitato l’ex Persia in anni anche molto recenti. Oggi Afshin ha un ristorante kasher e una pasticceria a Milano ma prima lavorava nei tappeti. «E mi ricordo che il mio capo di allora, un signore anziano e molto osservante, mi raccontò di un suo viaggio in Iran. Al ritorno, aveva l’aereo la mattina presto per cui non aveva fatto in tempo a mettere i teffillin in albergo. Li indossò dunque in aeroporto davanti a tutti: ebbene, mi raccontò che in tanti passavano a dargli una pacca sulla spalla o a dirgli”siamo con voi”». Un episodio che non ha la pretesa di essere un trattato di sociologia ma che conferma una diffusa benevolenza verso gli ebrei nella popolazione iraniana.
Anche per motivi economici, però, l’esodo non si è interrotto: gli ebrei in Iran oggi sono circa 8mila rispetto ai 140mila del 1948 e gli oltre 80mila degli anni Sessanta e Settanta. E i circa 500-600 di Milano? Una trentina di anni fa gli ebrei persiani facevano gruppo a sé più di quanto capiti oggi, un atteggiamento che Afshin imputa anche alla scarsa conoscenza dell’italiano presso la generazione di suo padre e, ancora di più, quella precedente. «Allora i mashadi milanesi stavano bene fra di loro, frequentavano tutti lo stesso tempio e facevano le vacanze insieme allo stesso bagno di Milano Marittima». «Adesso», riprende Afshin,«non è più così: i mashadi non si sposano più solo fra di loro e i loro figli vanno a scuola ebraica con gli altri bimbi milanesi».
«In questi giorni», riprende Afshin, «con mia madre ci domandiamo cosa direbbe il mio papà, mancato dieci anni fa: probabilmente sarebbe attaccato alla tv satellitare in cerca di notizie. Lui era molto dispiaciuto di non essere mai potuto tornare». Oggi che rapporto hai con la diaspora iraniana non ebraica? «Mi ha molto colpito che a una manifestazione di solidarietà con Israele, a Milano, dopo il 7 ottobre, si presentarono le ragazze di Donna, vita, libertà con le bandiere iraniane e israeliane». E tu hai voglia di andare in Iran? «Tantissima. Mi piacerebbe tornare a visitare la città dove sono nato, i luoghi della mia infanzia».

dan.mos.

Nell’immagine: Afshin Kaboli (secondo da destra) a Milano assieme a un gruppo di Donne, vita, libertà