LA RECENSIONE – Emanuele Calò: La percezione narrativa di Israele
«A questo proposito, dal momento che il nostro volume è pensato soprattutto per studenti e studentesse, è necessario riflettere brevemente sul significato del termine ‘sionismo’, troppe volte citato in maniera superficiale in contesti di dibattito geopolitico. Di fatto si tratta di una parola, coniata nel 1890 da Nathan Birnbaum, che fa riferimento al monte Sion, sul quale era sorto il primo nucleo della città di Gerusalemme. La sua definizione generale indica il movimento nazionale per il ritorno del popolo ebraico nella sua antica patria e la ripresa della sovranità ebraica nella Terra di Israele. L’ideale sionista di un ritorno in Israele ha profonde radici religiose». (Daniela Santus, in: Matteo Bona e Daniela Santus, Prefazione di Leonardo Mercatanti, Leggere gli spazi. Percezione narrativa di Eretz Israel, Nuova Trauben, Torino, 2025). Santus soggiunge che «i miei studi su Israele si sono evoluti nella direzione della geografia della percezione e della religione, senza le cui fondamenta è davvero impossibile comprendere appieno la Terra d’Israele».
Questo libro segue il metodo scientifico: «La scienza è un’impresa umana di enorme successo. Lo studio del metodo scientifico è il tentativo di individuare le attività attraverso cui si raggiunge tale successo. Tra le attività spesso identificate come caratteristiche della scienza vi sono l’osservazione e la sperimentazione sistematiche, il ragionamento induttivo e deduttivo e la formulazione e la verifica di ipotesi e teorie» (Stanford Encyclopedia of Philosophy). Santus analizza questa ipotesi: «Gli Israeliti non immigrarono a Canaan, né la conquistarono, ma emersero dal suo interno perseguendo un sogno di giustizia ed equità. Motivo per cui si dettero la Legge». Checché se ne pensi, da questo periodo molto ne discende, per esempio, che chi pretende di essere uno studente (studioso è troppo) non può pretendere di fare l’intellettuale organico; poi, ci sarebbe da discorrere di valori, ma in altra sede.
La Bibbia ci appare come un trattato di storia, di geografia e di diritto, illuminato dai rapporti con la trascendenza e con l’etica/morale, essendo però ontologicamente un testo di fede. Un unicum destinato a rivoluzionare il mondo soltanto in quanto tale. Santus scrive che «La preferenza che i rabbini, del periodo successivo alla rivolta di Bar Kochbà, hanno invece accordato all’uso del termine Israele, per riferirsi sia alla comunità che alla terra, dimostra come fosse già ben chiara l’importanza del territorio nell’autoidentificazione etnica del popolo ebraico». La recente pretesa, di negare il rapporto col territorio attraverso la negazione dell’evidenza, mira a provocare gli ebrei meno preparati.
Non si tratta di giustificare scempi, sopraffazioni o irredentismi, ma di capire, quando Santus dice che «Se invece ci soffermiamo a riflettere sugli attuali insediamenti ebraici in Giudea e Samaria non possiamo non notare come, quelli che giornalisticamente vengono definiti i “coloni”, siano stati essenzialmente spinti da due motivazioni, la prima delle quali fa proprio riferimento al fatto che si tratta delle regioni che hanno forgiato, più di altre, il legame tra ebrei e Terra d’Israele. Città come Hebron, Nablus (in ebraico Sichem) e Gerico – tutte situate nell’attuale Cisgiordania – sono infatti centrali nella narrazione biblica. La seconda risiede nel fatto che i coloni non hanno mai compreso il motivo per cui proprio in quelle regioni, così significative per l’ebraismo, non possano risiedere degli ebrei quando nel resto d’Israele risiedono comunque arabi che non hanno lo stesso legame religioso con la terra». Nella diade fra titolarità e comprensione del testo, paradossalmente comprensiva della scissione, potrebbe emergere la specificità dell’ebraismo e la coeva elisione di chi la rifiuta. L’autrice ricorda anche l’episodio in cui i crociati cristiani radunarono nella sinagoga principale della città tutti gli abitanti ebrei di Gerusalemme, che poi venne data alle fiamme.
L’altra parte del libro, di cui è autore Matteo Bona, compie una proficua operazione che diremmo di history & literature, non scevra da aspetti paradossali. Si discorre di Clarel di Hermann Melville, The Innocents abroad di Mark Twain, Daniel Deronda di George Eliot e Il mio nome è Asher Lev di Chaim Potok. A quanto accennato, vorremmo aggiungere, per nostro egoistico interesse, il riferimento al bellissimo filone della histoire romancée, al cui interno mi piacerebbe menzionare Olivier Guez e lo stesso Patrick Modiano. Non piacerebbe, forse, agli emuli nostrani di Michel Foucault, per fortuna mai menzionato da Bona. La corrente qui esaminata è di grande impegno ma, attraverso un corretto rapporto col lettore, può essere foriera di grandi soddisfazioni. Infine, vogliamo spendere qualche parola per Daniela Santus, autrice di memorabili articoli per Il Foglio, quando basta un solo suo pezzo per giustificare l’acquisto di un giornale.
Emanuele Calò