A TAVOLA – Accento romano e piatti italiani: il segreto di Pakino e di Rafter Chef

Fino a una decina di anni fa la vita di Raffaele Terracina, romano di Trastevere, classe 1966, si divideva tra il settore dell’abbigliamento e l’attività di scenografo e coreografo. Poi la svolta. Nel 2016, insieme alla moglie, Lidia Calò, direttrice del Dipartimento educativo della Comunità ebraica, decide di fare l’aliyah. «D’altronde è quello che avevano già fatto, uno dopo l’altro, i nostri tre figli Sarah, Michal e Samuel», racconta. «Li abbiamo educati allo stesso modo in cui siamo stati formati noi, con il medesimo percorso: scuola ebraica, Hashomer Hatzair, una forte impronta sionista». E così Israele è stato «un approdo abbastanza inevitabile, anche se reinventarsi a 50 anni è stato arduo».
Terracina risponde da Gerusalemme, dove sei anni fa ha aperto Pakino: due pizzerie che sono anche bistrot, un pezzo di Belpaese nel cuore della capitale d’Israele. Tutto, spiega, è nato un po’ per caso. Nei suoi primi mesi israeliani, mentre studiava in un corso (ulpan) per migliorare la conoscenza dell’ebraico, ha avuto l’opportunità di lavorare in una pizzeria nel quartiere Rechavia.
Era stata una delle figlie a suggerirglielo, perché «niente meglio della pratica per prendere confidenza con la lingua». L’intuizione è stata giusta e nuove strade si sono aperte. «Come si dice, da cosa è nata cosa. Mi sono appassionato al mestiere, ho trovato un socio in Alberto Moscati, un romano come me, ed è nato Pakino».
I locali sono al momento due, entrambi a Gerusalemme, anche se c’è l’ambizione di aprire in futuro anche a Tel Aviv e Netanya. «Servono braccia, ma sono ottimista», sottolinea Raffaele, conosciuto in città anche come Rafter Chef. Terracina è un entusiasta: «Finché c’è il divertimento, finché c’è la passione, tutto gira di conseguenza». Nel menù di Pakino, oltre alla pizza, «ci sono tanti piatti di pasta tipici della tradizione italiana, tutti fatti a mano, come le fettuccine alla puttanesca; e poi il supplì alla romana, rigorosamente con l’alloro; e le melanzane alla parmigiana, che vanno a ruba; gli israeliani sono pazzi per la cucina italiana, anche se non tutti i miei colleghi in Israele sembrano rispettarne l’autenticità: c’è ad esempio chi la cacio e pepe la fa con il parmigiano. Inconcepibile».
Poi i dolci, un must quelli tipici della tradizione ebraico-romana. «I dolci di piazza Giudia», sospira Terracina, cui Roma (e la Roma) «un po’ mancano, a volte». L’ultima sua collaborazione in ambito cinematografico risale al 2016, per il remake del kolossal Ben Hur, girato in parte a Cinecittà. Per il piccolo schermo invece ha allestito alcune scene della fiction Rai Un medico in famiglia. Ma quello è il passato. Il presente è Israele, «una vita appagante, ricca di stimoli».
Finite le scuole superiori, Terracina “scoprì” il paese insieme ad altri ragazzi dell’Hashomer prestando servizio nel kibbutz Sasa, in Alta Galilea, al confine con il Libano. «Però mentre loro rimasero per un periodo più lungo, io dovetti tornare poco dopo in Italia per via della chiamata al servizio militare».
Uno dei prossimi progetti in cantiere è la creazione di un canale YouTube di cucina italiana, affiancato da una pagina Instagram. «Sarà in italiano ed ebraico insieme, un ebraico un po’ imperfetto quale è il mio. Agli israeliani, ho scoperto vivendo qui, piace moltissimo la nostra pronuncia». Intanto, a gennaio, a Tel Aviv, Rafter Chef e il suo socio hanno illustrato la loro attività a una delegazione dell’Accademia Italiana della Cucina, fondata nel 1953 da Orio Vergani. Un viaggio nei sapori della gioventù di entrambi tra baccalà fritto, pasta e ceci, concia e panzerotti.

a.s.