LA RECENSIONE – Anna Segre: Una convivenza problematica ma non troppo

Happy Holidays, attualmente proiettato a Torino (cinema Nazionale), è un film del 2024 del regista arabo israeliano Scandar Copti, vincitore del premio Orizzonti per la Miglior Sceneggiatura all’81ª Mostra del Cinema di Venezia,
Rami, giovane arabo israeliano, ha una ragazza ebrea, Shirley, che rimane incinta, ma c’è chi non vede di buon occhio la loro relazione. Può sembrare una vicenda scontata ma alcuni elementi intervengono quasi subito a sconvolgere le aspettative dello spettatore. La storia di Rami e Shirley è solo il primo di quattro capitoli che ripercorrono lo stesso periodo di tempo, da Purim a Yom Ha-Atzmaut (è questo il senso del titolo del film), dal punto di vista di altri loro famigliari – la madre e la sorella di Rami, la sorella di Shirley – e scopriamo le loro vicende, che in parte si intersecano con quella iniziale, in parte vanno in tutt’altra direzione. Un meccanismo niente affatto facile da seguire ma molto intrigante.
Paola Casella su Mymovies lo ha definito: «Un film intenso che indaga nella complessità, senza fare propaganda politica». Non sono sicura che fossero queste le intenzioni del regista: è evidente che il film vuole denunciare l’intolleranza di alcuni israeliani ebrei nei confronti degli arabi, e calca la mano (in modo eccessivo, a mio parere, anche perché hanno poco a che fare con il resto della trama) sugli elementi di nazionalismo presenti nell’educazione che viene impartita nelle scuole israeliane. Però, appunto, la vicenda va poi in tutt’altra direzione: il baricentro del film (tre capitoli e personaggi su quattro) è la famiglia araba, decisamente benestante anche se sta attraversando un momento di difficoltà, con una bella casa, parenti e amici altrettanto e ancora più benestanti (mentre Shirley, la ragazza ebrea, è una hostess). Il tema dell’ostilità verso la relazione mista diventa meno centrale man mano che il film procede e la vera protagonista del film risulta essere la ragazza araba in lotta contro i vincoli a cui la sua famiglia si aspetta che debba sottostare.
Che impressione può lasciare un film come questo in uno spettatore che non conosce la realtà israeliana? Chi immagina gli arabi israeliani soggetti a una sorta di apartheid e a chissà quali vessazioni vede invece una comunità benestante e nel complesso ben integrata nella società (a parte pochi estremisti i rapporti sono sempre cordiali); segno di questa integrazione è la facilità con cui i protagonisti passano dall’arabo all’ebraico e viceversa (per questo non si può fare a meno di vedere il film in lingua originale).
Anche se probabilmente contro le intenzioni del regista, un film come questo, a mio parere, può contribuire a sfatare molti pregiudizi.

Anna Segre