LETTERATURA – Jonathan Safran Foer scrittore ebreo “italiano”

«Ho passato tanto tempo a Parigi, e nessuno ti aiuterebbe mai, neppure a sollevare un passeggino. E non è una banalità: davvero si può giudicare una cultura da come tratta cani e bambini». A Genova per il conferimento del Premio internazionale Primo Levi, assegnatogli per il 2025, Jonathan Safran Foer, racconta con entusiasmo della sua vita italiana: «In questo periodo vivo a Roma, ed è davvero tutto diverso: non puoi girare per strada senza che qualcuno saluti o voglia fare una carezza a tuo figlio, e questo mi piace, mi piace che i miei figli siano immersi quotidianamente in questo ambiente. In America è tutto parametrato sul possesso, sulla proprietà. Lì è importante sapere a chi appartengono le cose, molto poco viene condiviso… e io penso a come noi ora passiamo almeno due ore al giorno in piazza, a Testaccio. Non è che succedano cose particolari, e nessuno sta facendo soldi, o arte. Ma è una buona vita». Molto diverso il quotidiano a New York dove, racconta, viveva in un appartamento con uno spazio verde circondato da una siepe che era diventata la sua ossessione, il tempo passato a controllarla, a verificare se aveva bisogno di essere potata o annaffiata.
Una metafora perfetta di una vita opposta a quella delle ultime settimane. «La piazza, vivere in piazza… sono concetti che adoro, e in cui sto davvero bene. Abbiamo scelto l’Italia anche perché mia moglie ha radici italiane, un paese in cui ha vissuto e di cui parla la lingua. E a me piacciono i valori, e devo confessare che mi piacciono moltissimo anche cose che voi trovate frustranti. La maggior parte della gente vuole efficienza, e Roma è tutto il contrario, non è certo il modello di città più adeguato, per modernità, velocità, facilità… ma ci sono cose molto più importanti, io penso che sia ottimo mangiare un pasto lentamente, stare seduti a un tavolino, in piazza, e poter coltivare le relazioni umane».
Confessa che non se ne era reso conto, ma che ora che ne ha fatto l’esperienza per i suoi figli piccoli non vuole nulla di diverso. Aggiunge: «Spiegare perché a Roma sto bene è facile, la cosa difficile è tornare indietro». A Pagine Ebraiche nel 2019, poco dopo l’uscita in Italia di Se niente importa aveva detto: «È fondante e fondamentale continuare a raccontare storie. È forse la parte più importante e più ebraica, anche, di me. Raccontare, ricordare, tramandare… ».
Ora non ne è più così sicuro: «Penso sia oramai ovvio che la letteratura non ha un ruolo particolarmente importante su come le persone decidono di vivere la propria vita. Però solo perché sembra ovvio non significa sia vero, e nella storia praticamente tutti i cambiamenti sono iniziati con un cambiamento culturale. Quale che sia il mezzo che meglio può riuscire a creare un senso di disagio nelle persone, che sia un film, la televisione, musica o teatro, oltre ovviamente alla letteratura, in questo periodo ne abbiamo bisogno. Però io nel corso della mia vita non so se ho mai cambiato il mio punto di vista sulla base di una buona argomentazione. È quello che spiegavo prima: credo che ogni cambiamento dipenda in realtà da un contatto intimo con un’altra persona, sia nella vita reale che nella vita “artistica”. Sono le relazioni che ci cambiano». E se in passato ha definito «centrali» le sue radici ebraiche per la definizione della propria identità, oggi Safran Foer è più cauto: «Raccontare storie è parte della mia identità, e della mia identità ebraica. Certo, è ancora forte, ma è soprattutto forte il modo in cui in un certo senso lavoro sulla mia vita. Devo riconoscere che se non fossi uno scrittore il mio riconoscermi nell’ebraismo sarebbe minore, più debole, anche perché ci sono tante altre cose che sono importanti… ho capito che per me l’identità ebraica ha bisogno di tempo e di spazio ma anche di pensiero, di energia e soprattutto di studio. E di questi tempi nulla mi sorprende più di quanto l’ebraicità venga fuori spesso nella mia scrittura. Prova a immaginare qualcuno che non abbia mai visto uno specchio in tutta la sua vita e improvvisamente si vede riflesso. Potrebbe reagire con un moto di sorpresa, no? Ecco, questa cosa per me è la scrittura. Con l’ebraismo. La scrittura in qualche modo è lo specchio che mi mostra quanto profonde siano le mie radici. Sospetto che sia perché è la cosa cui dedico più tempo, cui tengo di più, ma è qualcosa che davvero mi prende di sorpresa ogni volta».
Aggiunge che si tratta di uno specchio che non lascia spazio all’interpretazione, e che in questo momento, per lo meno a New York, essere ebrei è diverso, è una identità che sta mutando: «Lì non avevo spazio né il tempo necessario per il silenzio. Per interrogarmi. La distanza mi ha fatto sentire più vicino».

a.t.