Micha Ullman: La vita e la memoria sono lettere di luce

Mi riceve nello studio di Ramat-Hasharon, uno dei tanti satelliti urbani di Tel Aviv, un tempo insediamento agricolo. Uno studio modesto adiacente a una casa spartana, ma curata e accogliente, che mi ricorda quella di mio nonno e degli zii quando sbarcarono nel 1938 a Ramatayim, oggi Hod Hasharon. Micha Ullman, grande artista israeliano, come tutti i grandi è una persona modesta, affabile, gentile ma determinata e con le idee molto chiare. Ha vissuto l’intera storia dello Stato d’Israele – è nato nel 1939 – e vede l’attualità come esito di errori tragici compiuti nel passato. Ricorda quando, soldato, all’indomani della Guerra dei Sei Giorni, al cospetto degli altri soldati euforici ed esultanti, sostenne che i territori annessi andavano restituiti in cambio della pace. Oggi si considera ancora «un soldato sull’orlo della guerra civile». Ullman è un imprescindibile punto di riferimento per chiunque si occupi di memoriali e monumenti, di storia e memoria. La Biblioteca sotterranea a Bebelplatz a Berlino, dove il 10 maggio 1933 i nazisti bruciarono 20mila volumi, è un manifesto dei contro-monumenti: interrata, inaccessibile, visibile solo dall’alto, con una luce perenne come l’or tamid (la luce eterna) di Yad Vashem, contiene la quantità di scaffali atta a ospitare il numero di libri bruciati. Il giorno prima di incontrarlo, a Gerusalemme per una grande manifestazione contro il governo Netanyahu, ho visitato la sua ultima opera, conclusa dopo dieci anni di lavoro, proprio a ridosso del 7 ottobre 2023 e dunque mai inaugurata ufficialmente. È in un luogo di grande rilevanza politica e culturale, tra l’Israel Museum, il Santuario del Libro, la Knesset e la nuova Biblioteca nazionale progettata dagli svizzeri Herzog & de Meuron, con i libri organizzati lungo una spirale discendente per tre piani. Letters of Light è una summa del suo pensiero e del suo lavoro (nell’immagine in alto).

«La prima cosa, quando comincio un’opera, è ascoltare, con le orecchie ma anche con gli occhi», racconta Ullman. «Guardare quello che vedo e che conosco, forse anche quello che ricordo, è una conversazione con il luogo. Nel caso di Gerusalemme sapevo sin dall’inizio che ci sarebbe stata una parte sopraelevata e una sotterranea, come a Berlino. La seconda decisione riguardava invece la scelta delle lettere, il materiale con cui si costruiscono i libri. Ma bisognava andare oltre le 22 lettere dell’alfabeto ebraico e includere anche il latino e l’arabo antico: le tre lingue della regione, quelle che vediamo, conosciamo, ricordiamo. Volevo che le lettere fossero le ombre delle pietre in cui sono scavate, mescolate alle ombre delle persone che visitano l’opera. Per questo il lavoro è così grande».
L’opera è a scala umana, una scala inusuale per un artista che di solito si misura con la piccola dimensione. Le 22 lettere dell’alfabeto ebraico, scavate nella pietra, sono il negativo della scultura e sono leggibili solo quando il sole le colpisce proiettandone l’ombra a terra. Caratteri non immediatamente decifrabili e sempre mutevoli, a seconda dell’inclinazione dei raggi solari. Disposte in cerchio come in un insediamento preistorico, circondano la lettera “A” scavata al centro del pavimento, nelle tre versioni ebraica, latina e araba. Anch’esse vuote, queste ultime consentono l’affaccio su un ambiente sottostante, questa volta fruibile, a forma di gola: il sole le proietta sulle pareti interrate in punti diversi a seconda delle ore del giorno e, puntualmente, alle 12.00, al centro del pavimento inferiore.

«La mattina vedi una piccola luce sul muro occidentale, a mezzogiorno sul pavimento e nel pomeriggio sul muro orientale», spiega l’artista. «Poi via via che la luce si affievolisce, le lettere diventano sempre più piccole e in alcuni punti se ne perde la forma. Compaiono e scompaiono e per me è come dar loro vita ogni giorno in un modo naturale». Con il pensiero e il cuore al Sefer Yetzirà (Il Libro della Creazione), per Ullman un costante punto di riferimento. E sia il memoriale di Berlino sia quello di Gerusalemme hanno come soggetto i libri: a Berlino, bruciati, non esistono più e la loro assenza è ricordata sottoterra; a Gerusalemme, invece, sono vivi, frequentati, ospiti della bellissima biblioteca nazionale. Micha Ullman dice che «la differenza principale è che a Gerusalemme c’è una parte emersa e una sottoterra, mentre a Berlino solo quella sommersa. L’enfasi a Berlino è sulla fine dei libri mentre a Gerusalemme sulla loro rinascita. Per questo ho scelto la lettera A, la prima dell’alfabeto. A Berlino ho cercato di lavorare con l’intera storia, non solo con il rogo dei libri, anche con quello che è accaduto dopo. Se guardi il riflesso delle nuvole nel vetro, vedi certamente il cielo ma, nello stesso tempo e soprattutto in inverno, le nuvole potrebbero somigliare al fumo. Elementi nascosti che, come nella poesia, puoi scoprire o meno».

A Gerusalemme, poi, i caratteri appartengono a tre alfabeti…
«È un elemento molto importante. Gli alfabeti latino, arabo ed ebraico hanno un’origine comune, nel Sinai meridionale, quando intorno al 1500 a.C., a Serabit al- Khadim, scavi archeologici hanno rinvenuto accampamenti di minatori di rame e un tempio dedicato alla dea Hathor. L’alfabeto proto-sinaico o proto-cananeo si basava sulla trascrizione del suono delle lettere, come quelle che ho scolpito a Gerusalemme, dal suono gutturale. Per questo la parte sotterranea del lavoro ha forma di gola. L’ispirazione maggiore è la bocca e quanto vi succede dentro quando si parla. Il movimento della gola, del palato, dei denti. La bocca è in assoluto la più bella scultura che esista. E penso che, se consideriamo i problemi di oggi, in questi che sono i giorni peggiori per la politica di Israele, l’unica soluzione sia parlare e ascoltare».

Per questo sta realizzando una scultura a forma di orecchio?
«Esattamente. Si tratta del calco del mio orecchio, del suo negativo, poggiato a terra, sull’erba, nel Ginnasio Herzliya, a Tel Aviv, la storica scuola fondata nel 1905 e dedicata a Theodor Herzl. Dal 2008 è diretta da Zeev Degani, una delle persone migliori che ci sia oggi in Israele».

Un uomo libero, coraggioso. Un grande educatore sempre a fianco dei suoi studenti anche quando contestano la politica del governo, e per questo è fortemente osteggiato. Ma per l’orecchio del Ginnasio Herzliya cosa l’ha ispirata?
«Le ispirazioni sono state almeno due. Una è molto vicina a voi perché riguarda lo scrittore Italo Calvino che nelle Città invisibili racconta di Argia, una città sotterranea dove, poggiando l’orecchio a terra, si può sentire qualche volta sbattere una porta. L’altra è il mio disegno del 2009 che chiamo “tavolo” perché ci sono quattro gambe che accennano a un tavolo che non c’è. L’ispirazione viene da una notizia pubblicata sul giornale nello stesso 2009 relativa a un kibbutz vicino a Gaza. La famiglia è riunita intorno al tavolo in cucina e a un certo punto sente il rumore di uno scavo sotto al pavimento. Il mio orecchio poggiato a terra è così un invito ad ascoltare voci, suoni e rumori».

Torniamo a Berlino dove c’è un altro bellissimo memoriale firmato Ullman, a Lindenstrasse. La stessa via del Museo ebraico e della grande Sinagoga restaurata.
«Si tratta di un memoriale in ricordo di una sinagoga liberale distrutta nel 1938 durante la Notte dei Cristalli. È una costruzione di panche in pietra disposte esattamente dove erano quelle in legno della sinagoga originaria».

Un esempio di memoria viva, non contemplativa. Anziché ricostruire la sinagoga, la sua memoria è resa attraverso i luoghi dove un tempo sedevano i fedeli e dove oggi possono sedere i visitatori del memoriale. Nel suo lavoro c’è sempre l’essenziale, la parte per il tutto, il minimo necessario per innescare un processo di conoscenza e di interpretazione…
«A me non interessa la scultura finita. Mi interessa creare le condizioni perché le cose accadano, perché la natura, il sole, gli uomini le facciano accadere. Un altro mio lavoro, sempre a Berlino, consiste di una scala con sette gradini che scendono. Il titolo è Stufen, passi».

Dove si trova? Dalle immagini si vede che la scala non è praticabile perché i gradini, come in molte altre sue sculture, sono ricoperti di sabbia.
«Quella scala è in una chiesa, è frutto del dialogo che dura ormai da alcuni anni con il parroco e che ci ha portato a diventare amici. Lui mi ha invitato a fare un lavoro nella chiesa. Parlando, è venuto fuori che lui viene da Stadtlengsfeld, una piccola città vicino a Dorndorf dove viveva la famiglia di mio padre e dove c’era una sinagoga con il mikveh. L’ispirazione per i sette gradini viene dunque dal mikveh che io però ho messo in una chiesa (ride, ndr). Senza contare che mio padre suonava proprio in una chiesa del villaggio».

Abbiamo parlato anche di un’altra scala, quella delle sue sculture, che generalmente è molto ridotta. Opere più simili a una miniatura che a un monumento, spesso ipogeiche, a volte fatte di semplici tracce a terra, impronte di oggetti famigliari, visibili “per inciampo”. Come Casa Due a Roma, o il pesce inciso nella roccia e il cucchiaio al suolo in Germania o l’impronta bucata della mano su un tombino che, sollevato, rivela il sistema idrico sotterraneo che rifornisce la Città Santa di Gerusalemme. Sono forme cave che quando piove si riempiono d’acqua e riflettono ciò che le circonda. In antitesi ai “monuments”, sono i “miniments”, realizzati tra il 1972 e il 2004 in spazi pubblici. Sono forme aperte, non finite, incipit che prevedono sempre il completamento da parte dell’interlocutore, del pubblico…
«A Boulevard Rothschild a Tel Aviv, per esempio, ho disegnato a terra i confini di un appartamento con quattro ambienti all’interno dei quali c’è l’impronta di una parte diversa della stessa sedia. I quattro spazi evocano anche le cavità del cuore e la circolazione sanguigna, che rimanda a sua volta a quella stradale lungo il Boulevard. Il titolo è Yesod, fondamentale, un termine usato nel misticismo ebraico. La sedia, come la casa, sta per la presenza umana».

Vale ricordare che la prima casa costruita a Tel Aviv era proprio alla fine di Boulevard Rothschild e che Ullman, fino all’età di dieci anni, ha giocato con l’albero che è a 200 metri dal suo lavoro Yesod. Così l’opera è sempre l’esito di una catena di memorie ed evocazioni?
«È una lezione tratta dalla Bibbia: da una storia molto semplice nascono infinite interpretazioni. Naturalmente io parto dalla mia lingua ma questa è aperta ad altre lingue e linguaggi. Artisticamente sono stato influenzato dall’arte minimalista, post-minimalista, concettuale».

Per certi versi analogo a Yesod è Conversation, lavoro del 2000 situato nel cortile del Museo d’Arte e Storia dell’Ebraismo a Parigi. Come in un sito archeologico emergono i profili frammentari e sporadici delle botteghe sottostanti aperte dagli ebrei che all’inizio del XX secolo giunsero a Parigi in fuga dai pogrom dell’est. Ma tornando alle dimensioni, qual è il suo lavoro più piccolo?
«Un granello di sabbia, acquistato dalla Kunst Akademie di Berlino ed esposto nel nuovo padiglione. È poggiato tra due vetri su un tavolo, con una lente d’ingrandimento e una illuminazione laterale che lo fa sembrare un meteorite. L’ispirazione è il discorso pronunciato da Anwar al- Sadat alla Knesset nel 1977, alla vigilia della firma del trattato di pace tra Egitto e Israele. Il Presidente egiziano rivendicò allora la restituzione della penisola del Sinai “fino all’ultimo granello di sabbia”».

Oltre a creare “opere aperte”, lei usa in genere un’iconografia molto famigliare, come la casa. Molto interessante è il lavoro Two Family House, realizzato nel Museo di Herzliya nel 2019: di nuovo il tema del doppio, della vicinanza, della fratellanza…
«Era la mia casa fino a sei mesi fa. Due famiglie che vivevano accanto, la nostra e una coppia di ragazze, una tipologia di abitazione in voga negli anni ‘40. La casa è stata poi demolita per far posto al nuovo sviluppo immobiliare del quartiere. Ho disegnato la pianta delle due case a scala reale con la sabbia, un materiale che mi piace molto per la sua fragilità e precarietà e che uso spesso per i lavori al chiuso e per i modelli. Un invito a visitare la mia casa ma anche quella del vicino e nel visitarla se ne perdono progressivamente i confini. Di nuovo, lo scopo dei miei lavori è creare condizioni perché le cose accadano. Qui il contenitore è la condizione per dar forma alla terra; a Gerusalemme le lettere di pietra danno forma alla luce del sole».

L’immagine della pianta evoca di nuovo un insediamento archeologico, una stratificazione di realtà e di significati: una casa antica, che era però la casa dell’artista e che invita alla convivenza e al dialogo tra vicini. Proprio per l’importanza che il passato riveste per il presente e il futuro, nel lavoro di Ullman è così centrale sin dagli esordi lo scavo, quello fisico, ma anche quello nella storia e nella tradizione ebraica, perché illuminino un presente che a suo dire non è mai stato così oscuro. Un esempio significativo è il lavoro Messer-Metzer del 1972, profetico e visionario.
«Il villaggio arabo Messer e il kibbutz Metzer sono a due chilometri di distanza e molto vicini al confine tra la West e la East Bank. Per tre mesi ho dialogato con i giovani dei due villaggi; sono seguiti due scavi da parte degli stessi giovani nei rispettivi territori e, infine, lo scambio della terra per colmare ognuna lo scavo degli altri. È un invito alla pace, allo scambio, alla coesistenza ».

Dopo il 7 ottobre in tutta Israele sono sorti monumenti, alcuni spontanei, altri su commissione, la maggior parte costituiti dalle fotografie dei giovani uccisi o sequestrati. Se fosse incaricato di disegnarne uno, come lo farebbe?
«Come una bocca, forse una bocca spalancata che urla, come quella dipinta da Edward Munch. Ma in realtà quello che dovevo dire è già tutto in Lettere di luce, a Gerusalemme».

Adachiara Zevi