CINEMA – Registi israeliani? No grazie

Da mesi cineasti israeliani e registi ebrei sono esclusi dai circuiti dei festival, emarginati senza nemmeno bisogno di proclami: bastano i silenzi, le mail senza risposta, gli inviti ritirati, le scuse private che non diventano mai prese di posizione pubbliche.
L’onda lunga del 7 ottobre ha innescato un riflesso condizionato nell’industria culturale globale: ogni voce che può essere etichettata come “israeliana” va trattata con cautela se non respinta. Non si tratta solo di contenuti: a essere problematici sono anche i nomi, le lingue parlate nei film, il fatto stesso di essere ebrei anche se non cittadini israeliani. L’identità è diventata una colpa presunta, da espiare o da mascherare. Il fenomeno è stato raccontato di recente anche da Aish.com attraverso decine di testimonianze raccolte nell’ambiente da Susan Hornick: festival che suggeriscono con tatto di attendere tempi migliori, distributori che interrompono trattative, selezionatori che ammettono di preferire autori “più neutri”. Il regista Tom Nesher, che ha avuto problemi con il Sundance Film Festival e con il Tribeca, o Shoval Tshuva raccontano un meccanismo che non è più un’eccezione: la storia non basta a legittimare un’opera, perché il solo fatto di provenire da Israele o da un autore ebreo basta a renderla controversa. Il punto non è la qualità ma la paura di essere associati politicamente a qualcosa di scomodo. E chi non si dissocia apertamente da Israele, chi non firma appelli, chi non aderisce a campagne, si ritrova a dover giustificare la propria stessa presenza.
Nel frattempo, le istituzioni israeliane hanno virato verso la promozione delle serie TV, lasciando il cinema d’autore privo di sostegno diplomatico o commerciale. E anche in Israele negli ultimi mesi, alcuni enti pubblici hanno bloccato finanziamenti a film considerati “divisivi” o “politicamente problematici”. Il risultato è un sistema doppiamente bloccato, in cui il coraggio degli autori viene scoraggiato sia dentro che fuori dai confini del Paese. E chi tenta di raccontare storie ritenute “difficili”, resta solo.
Anche nella Diaspora la situazione si fa tesa: attori, registi, sceneggiatori ebrei negli Stati Uniti, in Francia, in Germania ricevono pressioni più o meno esplicite, si vedono rifiutare collaborazioni, vengono interpellati più per le loro posizioni geopolitiche che per il loro lavoro. Nel frattempo, il mondo dei festival continua a parlare di pluralismo e inclusività, ma con liste sempre più selettive nei confronti di chi è considerato degno di parola. Anche nel 2025 lo scenario non è cambiato: al Festival di Berlino, a febbraio, la partecipazione israeliana è stata molto ridotta, come a Cannes, a maggio. A Venezia non pare ci sarà alcun titolo israeliano in concorso. Fuori concorso al Locarno Film Festival ci sarà però Some Notes on the Current Situation, il nuovo film dell’acclamato regista israeliano Eran Kolirin.