FINANZA – I mercati scommettono su Israele nonostante la guerra

A quasi due anni dall’inizio del conflitto con Hamas, e dopo un’escalation culminata in uno scontro diretto con l’Iran, l’economia israeliana continua a sorprendere per solidità e capacità di attrarre capitali. «Un’anomalia» nel panorama globale, l’ha definita sul Financial Times Ruchir Sharma, presidente di Rockefeller International. «Dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 il mercato azionario che ha avuto la performance migliore al mondo è stato… Israele», ha scritto Sharma, sottolineando lo stupore per un dato in netto contrasto con lo scenario bellico. Dopo un calo iniziale, l’indice della Borsa di Tel Aviv si è ripreso completamente in appena quattro settimane, segnando da allora un balzo dell’80%. Anche con l’apertura del fronte iraniano, i mercati hanno continuato a puntare sullo stato ebraico, «ritenendo che il conflitto sarebbe finito presto, con Israele vincente sia sul piano militare che economico».
La fiducia non nasce solo dai numeri della Borsa, ma da un percorso economico lungo decenni. Israele, ricorda Sharma, è «uno dei pochi paesi a essere passato da economia in via di sviluppo a economia avanzata», l’unico in Medio Oriente classificato come sviluppato sia dal Fondo monetario internazionale sia dall’indice globale MSCI. Una transizione resa possibile da riforme strutturali iniziate negli anni Ottanta, con la riduzione della spesa pubblica dal 50 al 40% del Pil e un contenimento del debito sotto il 70%.
Decisivo, in questo processo, è stato l’investimento in tecnologia. Israele destina oggi oltre il 6% del Pil alla ricerca e sviluppo – più di qualsiasi altro paese al mondo e più del doppio della media globale – e circa la metà di questi fondi arriva da multinazionali straniere. «Il loro lavoro ha creato l’Iron Dome e la rete di razzi intercettori», scrive Sharma, «che hanno distrutto più dell’85% dei missili e una quota ancora maggiore dei droni lanciati contro Israele nei recenti conflitti».
Le ricadute tecnologiche del comparto difesa hanno contribuito a fare di Israele un protagonista globale nella cybersicurezza e nell’innovazione. Il paese conta 73 start-up attive nell’intelligenza artificiale generativa, il terzo numero più alto al mondo, e circa il 50% delle sue esportazioni è costituito da prodotti e servizi hi-tech. Una struttura produttiva, osserva Sharma, «più simile a quella della California che a quella del Medio Oriente».
Più cauto il giudizio dell’economista Howard Rosen, che in un’analisi sul Times of Israel mette in guardia sui rischi legati all’aumento della spesa pubblica in tempo di guerra. Tra il 2023 e il 2025, la spesa per la difesa ha già superato i 100 miliardi di shekel (24,5 miliardi di euro), mentre quella civile, tra ricostruzione e assistenza ai feriti, potrebbe far salire la spesa complessiva al 38% del Pil. «Il deficit potrebbe toccare il 14,5% e il debito superare il 66%», scrive Rosen, «con il rischio di una spirale come quella degli anni ’80». Secondo lui, la fiducia dei mercati non basta: servono riforme per contenere le uscite e tutelare i servizi essenziali. «Senza una gestione oculata della spesa pubblica e senza riforme, il miracolo rischia di diventare una trappola».
D’altro lato, il governo di Gerusalemme guarda con favore alla fiducia degli investitori. A maggio 2025, riporta Ynet, la Banca d’Israele ha segnalato un aumento record degli investimenti esteri. «I rischi per il nostro paese stanno diminuendo», ha dichiarato Avi Hasson, responsabile di un’organizzazione che promuove il settore tech israeliano. Grazie ai colpi inferti a Hezbollah e all’Iran, lo stato ebraico, aggiunge, «ha rafforzato la propria posizione».