Racconti multicolori di un ebreo afroitaliano

I Beta Israel, la comunità ebraica etiope, da anni chiedono maggiore rappresentanza nello spazio pubblico israeliano. Forse anche per questo una studentessa della Ben Gurion University del Negev ha proposto a Fred Kudjo Kuwornu di raccontare la loro storia in un documentario. Un regista con radici ebraiche e africane deve essere sembrato la figura ideale. «Mi ha un po’ spiazzato. Capisco l’esigenza, ma non sono la persona giusta», spiega Kuwornu a Pagine Ebraiche, nel mezzo di una settimana di incontri tra università e centri culturali in Israele. «Non conosco tutte le sfumature, rischierei di rappresentare in modo sbagliato la loro storia».
Dare visibilità in modo autentico agli invisibili è una parte essenziale del lavoro di Kuwornu. Una consapevolezza acquisita attraverso la propria esperienza personale. «A Bologna ero l’unico in classe con una madre ebrea e un padre ghanese. Non c’erano altri bambini come me. Né africani né ebrei. A lungo ho cercato solo di assomigliare agli altri». Quel bisogno di confondersi si è trasformato nel tempo in uno sguardo critico, poi in un’esigenza narrativa. «La rappresentazione non ha sempre a che fare con la realtà, ma con chi controlla i mezzi di comunicazione. E in Italia, per molto tempo, le minoranze semplicemente non esistevano nel racconto pubblico». Un’assenza che ha cercato di colmare con documentari come Blaxploitalian, che ripercorre un secolo di presenza nera nel cinema italiano, e We Were Here, presentato alla Biennale d’Arte di Venezia, dove riporta alla luce figure africane nei quadri del Rinascimento.
Il suo percorso nel cinema nasce quasi per caso. Con una formazione in Scienze Politiche e un passato in radio e tv, Kuwornu riesce a entrare come comparsa e assistente sul set del film Miracle at St. Anna di Spike Lee: storia dei soldati afroamericani nella campagna d’Italia. «Quando il film finì, sentii il bisogno di approfondire». Nasce così Inside Buffalo, il suo primo documentario, dedicato a quei soldati dimenticati.
Da lì, un percorso coerente: dare voce a chi non l’ha mai avuta. Anche la sua recente visita in Israele si inserisce in questa traiettoria. Invitato da diverse istituzioni accademiche – tra cui la Ben Gurion University su iniziativa della docente Cristina Bettin – Kuwornu ha discusso con studenti e ricercatori dell’evoluzione della rappresentazione dei neri nel cinema italiano e del rapporto tra identità, memoria ed esperienza afro-italiana. «Gli studenti sono rimasti molto colpiti: non si aspettavano che nel Rinascimento ci fossero così tanti ritratti di persone africane. Ma ci sono, eccome. Eppure vengono ignorati o mal interpretati. Spesso i titoli dei quadri, dati secoli dopo, parlano di “uomo africano” accanto al “duca”, e le persone si immaginano uno schiavo, un servitore o simili, mentre magari era un diplomatico o un ambasciatore».
Poi Kuwornu si sofferma su un’altra distorsione: il mito dell’omogeneità. «La storia è fatta di contaminazioni. Anche ciò che oggi chiamiamo cultura italiana, cibo italiano, arte italiana è il risultato di incontri e influenze. Pensiamo al made in Italy: funziona perché è frutto di una lunga storia di mescolanze. Eppure continuiamo a considerarlo qualcosa di puro. Ma non lo è mai stato».
Durante la sua permanenza in Israele, il regista ha ricevuto un importante riconoscimento: il premio Dan David, assegnato a chi esplora il passato dell’umanità. «È un onore. È un premio che investe nella ricerca e nel suo senso per il futuro». Tra ricerca e futuro, riemergono le radici ebraiche di Kuwornu: «Mia madre fa parte della comunità ebraica di Ferrara», racconta. «Da anni penso a un documentario su quella realtà, che si sta riducendo sempre più. Vorrei raccontarla non con interviste frontali, ma seguendo la quotidianità delle persone. In particolare il rabbino Luciano Caro, un personaggio incredibile, che gira l’Italia in treno per tenere viva una comunità piccola ma tenace». Per Kuwornu, la rappresentazione riguarda anche il diritto all’immaginario.
«Quando vedi una persona come te solo nei ruoli di povero, immigrato o vittima, finisci per pensare che quello sia il tuo destino. Ma il problema non sono solo gli stereotipi. È l’assenza. Alcune storie non esistono proprio. L’ebreo italiano, ad esempio, non è rappresentato. Magari c’è un personaggio ebreo, ma non lo vediamo mai vivere la sua cultura, le sue feste. È come se fosse sempre l’altro, anche se italiano da millenni».
Anche le minoranze, aggiunge, cadono spesso nella stessa trappola. «Siamo talmente abituati a certi schemi che li riproduciamo senza rendercene conto. Per questo serve un lavoro profondo, anche istituzionale. Ma finché non lo fanno loro, dobbiamo farlo noi. Raccontarci. Anche se il pubblico è piccolo, anche se è difficile. È comunque un modo di esserci».
I progetti futuri seguono questa linea. Uno è una video-installazione con un albero artificiale e nove monitor, ognuno dedicato a un simbolo Adinkra del Ghana. «Sono simboli antichi, ciascuno esprime un concetto: forza, futuro, perseveranza. Voglio raccontarli con un linguaggio artistico contemporaneo».
L’altro è un documentario internazionale su San Benedetto il Moro, figlio di schiavi, nato vicino a Palermo nel Cinquecento e venerato oggi in Brasile, Colombia, Stati Uniti. «Attraverso le processioni popolari voglio far vedere come una figura africana sia diventata un punto di riferimento spirituale in più continenti. È una storia che attraversa secoli e oceani, come la diaspora».
Il suo obiettivo, conclude Kuwornu, è realizzare ricerche che «tocchino più paesi, più lingue. Perché la mia vita è così. E perché la storia che voglio raccontare è sempre più grande di una singola nazione. La rappresentazione ha senso se sa abbracciare la complessità».
Daniel Reichel