ISRAELE – Senza Costituzione si può ma…

Sin dalla sua fondazione nel maggio del 1948, Israele ha scelto di non dotarsi di una costituzione formale, preferendo un impianto giuridico stratificato, costruito attraverso le cosiddette “Leggi fondamentali”. Daniel Horowitz, su Tribune Juive, ragiona su questo assetto, nato da un compromesso originario tra le componenti laiche e religiose del neonato Stato, su come ha dato forma a un diritto senza patto, un corpus normativo che ha garantito continuità istituzionale ma al prezzo di un’intrinseca fragilità. Le fonti giuridiche, che spaziano dal diritto ottomano a quello britannico del Mandato, dal Talmud alla common law, spiega, hanno creato una struttura tanto ricca quanto disomogenea, nella quale convivono modernità e tradizione, Stato e religione, norme scritte e prassi consolidate. Per decenni, questo equilibrio instabile ha funzionato, almeno in apparenza, e le Leggi fondamentali hanno fornito una cornice istituzionale minima, ma senza articolare un sistema di diritti pienamente garantiti né definire chiaramente la separazione dei poteri. L’assenza di un testo costituzionale unitario riflette, del resto, una tensione che attraversa l’identità stessa dello Stato: quella fra il suo carattere ebraico e l’aspirazione a essere una democrazia liberale. Fu solo negli anni Novanta che due Leggi fondamentali – dedicate alla dignità umana e alla libertà personale – segnarono una svolta. La Corte suprema, sotto la guida di Aharon Barak, ne riconobbe un rango quasi costituzionale, attribuendosi la facoltà di annullare leggi ordinarie in contrasto con quei principi. Una vera rivoluzione silenziosa, salutata da molti come l’emergere di una democrazia costituzionale “de facto”, ma percepita da altri come una rottura dell’equilibrio originario e un’ingerenza del potere giudiziario nell’arena politica. Ma, continua il testo di Horowitz, queste tensioni hanno raggiunto un punto critico nel 2023, quando una coalizione nazionalista e religiosa ha promosso una riforma giudiziaria che mirava a limitare l’autonomia della Corte suprema, abolendo il criterio di “ragionevolezza” nelle decisioni amministrative e incidendo profondamente sul meccanismo di nomina dei giudici. La reazione è stata immediata, e vasta: un’ondata di proteste civili, una mobilitazione senza precedenti che ha coinvolto riservisti, intellettuali, accademici, associazioni professionali e gran parte della società civile. Quella crisi, tutt’altro che risolta, ha riportato alla luce la questione mai chiusa del patto fondativo: è possibile sostenere una democrazia liberale in assenza di una Costituzione esplicita? In molti ordinamenti, il testo costituzionale non è solo un insieme di norme, ma l’espressione simbolica di un “noi” condiviso. In Israele, al contrario, tale “noi” resta sfumato, plurale, talora contraddittorio. Le sue componenti – ebrei laici e religiosi, arabi, drusi, ultraortodossi e sionisti secolari – coesistono sotto lo stesso tetto istituzionale senza aver mai davvero definito un’intesa comune sui confini dell’autorità politica e sulla gerarchia dei valori. In assenza di un patto dichiarato, il diritto viene costantemente risemantizzato: ogni atto giurisdizionale può essere percepito come un atto politico, ogni iniziativa legislativa come una minaccia all’equilibrio fragile che tiene insieme la società israeliana. Per Horowitz l’esperienza israeliana dimostra che una democrazia può sopravvivere senza una costituzione scritta, ma a caro prezzo: incertezza sistemica, polarizzazione permanente, sfiducia reciproca. Forse è quindi giunto il tempo di articolare apertamente ciò che finora è rimasto implicito. Una Costituzione non eliminerebbe i conflitti profondi che attraversano la società israeliana, ma offrirebbe un linguaggio comune entro cui contenerli, scrive l’autore: non si tratterebbe di appianare le divergenze, ma di riconoscerle come parte di una convivenza consapevole, finalmente sottratta alla precarietà del non detto.