7 OTTOBRE – Israele al bivio: guerra sì, guerra no. Parlano due italkiot

Una grande sensazione di stanchezza per il protrarsi della guerra a Gaza accomuna Angelica Edna Calò Livne e Nora Ortona. Entrambe parte della comunità degli Italkim, gli italiani d’Israele, entrambe preoccupate per i propri figli e per il destino del paese, ma con punti di vista sul conflitto diversi. Angelica, colonna portante del kibbutz Sasa, nel nord d’Israele, si dice sfinita. «Una stanchezza che non si può dominare, davvero. Siamo stanchi tutti quanti, a cui si aggiunge una totale sfiducia nella nostra leadership politica. Da mesi sentiamo dire «faremo questo, faremo quest’altro»… e non succede niente. Ci struggiamo per gli ostaggi, ma nulla cambia». E l’annuncio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di voler avviare un’altra grande operazione per prendere il controllo di Gaza City ha acuito questo spaesamento. «Io non ce la faccio più: solo l’idea che possano richiamare uno dei miei figli mi fa star male», prosegue Angelica. «Fra due mesi saranno due anni dal 7 ottobre, due anni che viviamo con dolori, incubi, occhiaie… perché non si dorme più di un’ora a notte. E adesso dicono: ”Conquisteremo tutta Gaza e poi la daremo a qualcun altro perché la governi”. Ma scusa: dobbiamo essere noi a cacciare Hamas per tutti? I nostri soldati a fare il lavoro per tutti?».
Anche Nora, da Gerusalemme, si interroga sul significato della nuova operazione, ma ribadendo la sua fiducia in Netanyahu. «La situazione è molto complessa. Temo per gli ostaggi, ma soprattutto, più che per gli ostaggi, temo per i soldati. Abbiamo abbastanza uomini? I nostri miluim (riservisti) sono due anni che stanno dentro. C’è gente che ha fatto un anno intero di servizio, intervallato da poche settimane a casa. È una situazione sfibrante».
Se una ulteriore missione a Gaza City sia la scelta giusta, prosegue, «non lo so. Ma la vera domanda è: avevamo davvero una scelta? Sono una grande sostenitrice di Netanyahu e mi chiedo fino a oggi, quali erano le alternative? Hamas non ha mai voluto rilasciare tutti gli ostaggi: parlavano di al massimo dieci rapiti, in cambio di migliaia di detenuti di ogni livello. Non hanno mai accettato lo smantellamento delle loro forze militari. Quindi, qual era la scelta? Consegnare Israele a loro oggi o tra due, sei, dieci anni?».
Sulla situazione a Gaza Angelica tiene a sottolineare il suo dolore. «Mi dispiace tantissimo per quello che sta succedendo dall’altra parte: per i civili, per i bambini. Ma se non ci ridanno gli ostaggi, cosa possiamo fare? Lo chiedo anche a tutti quei capi di stato che riconoscono la Palestina: voi che fareste?». Più dura la posizione di Nora. «Francamente, la questione palestinese a me non interessa, sono contraria agli aiuti inviati a Gaza: perché dobbiamo essere noi a dare una mano al nemico? Poi se mi chiedi è giusto sacrificare 20 ostaggi e radere al suolo Gaza per eliminare Hamas? Non lo so. Dal punto di vista della Torah, non si deve pagare qualsiasi prezzo per un ostaggio. È un discorso molto difficile, ma è così. Io, anche da madre, l’ho detto alle mie figlie: non metto in pericolo Israele per salvare mia figlia». Dall’altro lato le figlie di Nora, due nell’esercito e una prossima ad arruolarsi, pongono alla madre domande difficili. «Mi dicono: ”Mamma, se non posso vivere sicura e felice nel mio stato, perché devo restare qui?”. Alla nostra generazione non sarebbe mai venuta in mente una domanda del genere», ammette.
Parlando di figli, ad Angelica torna in mente un’intervista al suo più grande, Yotam, fatta 20 anni fa. «Yotam nel 2005 era un ufficiale. Lo intervistavano mentre evacuavano i coloni israeliani da Gaza. Diceva: ”È terribile, ci si strappa il cuore, ma lo facciamo perché è giusto”. E aggiungeva: ”Lo faccio anche perché non vorrei che tra tanti anni ci sia una guerra con Gaza e mio figlio debba combatterla”. E poi, 20 anni dopo, eccoci qui». Il pensiero va poi ai giorni successivi al 7 ottobre: «Eravamo feriti, straziati, ma anche capaci di reagire con orgoglio e unità: in poche ore eravamo tutti pronti, chi per aiutare al kibbutz, chi per soccorrere Nahal Oz o Be’eri, ciascuno era pronto a sacrificarsi», afferma Angelica. «Ma adesso basta. Abbiamo perso troppe persone. Siamo un paese troppo piccolo, non possiamo più sacrificare i nostri figli. Penso ad Abramo e Isacco: Dio all’ultimo momento fermò il braccio di Abramo».

Daniel Reichel