CINEMA – Danza per un amore

«Nel mondo occidentale, la maggior parte delle persone oggi ha due, tre matrimoni o relazioni impegnate nell’arco della vita adulta. Alcuni di noi con la stessa persona». Così la celebre psicoterapeuta Esther Perel. Ed è proprio questa l’idea centrale del nuovo film israeliano Dead Language diretto da Michal Brezis e Oded Binnun, appena presentato in prima mondiale al Tribeca film Festival di New York.
Nell’arco della vita, sono molti i cambiamenti individuali che possono mettere in crisi una coppia. Due gli esiti possibili: la fine della relazione o la sua rinascita con un equilibrio rinnovato. Pagine Ebraiche incontra i registi e dal primo momento scatta una connessione immediata. Pieni di curiosità, chiedono informazioni sulle comunità ebraiche italiane e – come la protagonista del film – vogliono stabilire un contatto, conoscere e capire. Poi si comincia con il cinema. Michal e Oded, oltre a dirigere film insieme, sono una coppia anche nella vita. «Abbiamo generato due film e due bambini», racconta lei sorridendo. «Siamo una coppia corazzata», aggiunge lui. «Abbiamo iniziato gli studi di cinema insieme alla scuola Sam Spiegel, ci siamo diplomati e, sempre insieme, abbiamo realizzato tutti i cortometraggi e i film. Se ci separassimo, ognuno di noi dovrebbe trovarsi un lavoro diverso. Non ne saremmo capaci». «Quando abbiamo affrontato un parto di emergenza», riprende Michal, «l’ostetrica ha detto che era evidente come lavorassimo insieme, tanto eravamo sincronizzati».
I loro primi lavori includono cortometraggi come Sabbath Entertainment, Tuesday’s Women e Lost Paradise con cui hanno vinto complessivamente 40 premi in tutto il mondo. Sono poi stati coinvolti, solo per la regia, nella realizzazione di The Etruscan Smile, che aveva come protagonista Brian Cox (Succession).
Dead Language nasce come prosecuzione di un’idea già realizzata dal duo nel cortometraggio Aya, candidato all’Oscar nel 2015. Era stato un successo inaspettato per un corto nato come una sorta di pilota, una prova sul campo in attesa di produrre il film vero e proprio. La storia è quella di Aya (Sarah Adler, Notre Musique di Jean Luc Godard, Il gusto delle cose di Trần Anh Hùng) che, all’aeroporto ad accogliere il marito Aviad, per una serie di circostanze se ne va prima del suo arrivo caricando in macchina uno sconosciuto. Mentre Aya attende il marito, un autista si allontana chiedendole di reggere un attimo il cartello sul quale è riportato il nome del cliente che sta aspettando. Quando il passeggero arriva, lei reagisce di istinto e spinta dalla curiosità, omette di rivelare la verità allo sconosciuto Esben (Ulrich Tomsen, premiato nel 1998 per Festen) che l’ha scambiata per la persona che deve portarlo a Gerusalemme.
Aya è interessata agli sconosciuti, catturata dall’immaginare quello che non conosce. In macchina domanda al passeggero se Israele sia come se l’aspettava. Esben le risponde che non fantastica su un’esperienza senza averla vissuta, e lei ribatte che «la vita è troppo piatta per viverla senza immaginazione». Il marito, Aviad (Yehezkel Lazarov, The Kindergarten Teacher), invece non riesce a cogliere a pieno i turbamenti di Aya: è uno studioso di lingue morte, preso soprattutto dalla carriera accademica.
«Sono cresciuta in una famiglia ortodossa », spiega Michal. «E forse è stato quel muro invisibile di regole e restrizioni a stimolare la mia curiosità verso gli estranei che venivano da realtà diverse. Risvegliavano in me mondi sconosciuti e un desiderio di connessione e di confronto fuori dal solco tracciato».
Non va troppo raccontato Dead Language, anche se non è un giallo. Composto da strati diversi che si intersecano e meritano una lettura attenta è lontano sia dal cinema israeliano più recente che da quello americano. Sembra più un film europeo, forse grazie anche alla coproduzione internazionale e alla partecipazione di attori del vecchio continente. Il film espone temi ricorrenti ed è caratterizzato da una certa circolarità nella struttura. L’introspezione dei personaggi ha un ruolo importante anche se a volte rimane un’intenzione che non trova piena espressione. Lo spettatore non riesce sempre a empatizzare con i personaggi, eppure certe ambiguità funzionano come suggestioni. Il personaggio di Esben, per esempio, un architetto dell’illuminazione, fornisce l’occasione per parlare del contrasto tra luce e ombra, fra evidente e celato, fra la comunicazione verbale e un modo di essere insieme più silenzioso e intimo. Infine, una bella scena di danza (foto in alto), basata sull’interpretazione di Lazarov, ex ballerino della compagnia Batsheva, sigilla i cambiamenti avvenuti: «Le lingue morte, al contrario di quelle estinte, possono essere rivitalizzate», commenta Oded. «Così anche un amore può tornare in vita rinnovandosi».
Ma in un momento tanto difficile per il cinema israeliano, non c’è il rischio che la situazione politica possa limitare la circolazione del film? «Il nocciolo di questa storia, per noi, è il tentativo dell’eroina di superare i confini e connettersi all’altro», rispondono i registi sorridendo. «Speriamo che il film abbia le stesse possibilità e raggiunga il pubblico internazionale».

Simone Tedeschi