7 OTTOBRE – Parla la sorella di un ostaggio: Senza Omri mi manca il respiro

Ogni giorno, ogni ora, ogni minuto è scandito dal pensiero del fratello Omri, ostaggio di Hamas, rinchiuso da qualche parte a Gaza. Da quasi due anni Naama Miran non riesce a vivere la sua quotidianità. «È come se mi mancasse sempre il respiro» spiega a Pagine Ebraiche dalla sua casa nel nord d’Israele. L’unico sollievo è la solidarietà delle altre famiglie degli ostaggi. «Siamo come un’unica famiglia. Loro sono il mio respiro. Ho bisogno di stare in luoghi dove ci siano persone che capiscono esattamente cosa stiamo passando».
Ma Naama ha anche bisogno che il mondo presti orecchio al dolore dei rapiti, alla loro intollerabile situazione, alle centinaia di famiglie travolte dal 7 ottobre. «Non è una questione politica, ma umanitaria» chiarisce. «Nessuno al mondo accetterebbe o resterebbe in silenzio di fronte a vite strappate dalle loro case senza alcuna colpa. Non voglio vendetta, non ci credo. Voglio solo che gli ostaggi vivi vengano liberati, curati e possano riprendersi. E che i morti abbiano una sepoltura dignitosa».
Di Omri, 48 anni, Naama conserva ricordi pieni di calore. «Come fratello, è sempre stato pronto a condividere. Sin da piccoli facevamo tantissime cose insieme. Ho tre fratelli più grandi e lui è quello più vicino a me per età: nostra madre voleva che fossimo uniti, e lo siamo diventati. Ricordo le ore passate a giocare a palla, una delle sue passioni, o gli scherzi che amava fare. Una volta mi terrorizzò con un ragno di gomma: era l’unico a sapere di questa mia paura, proprio perché eravamo sempre insieme. Rideva a crepapelle. Eravamo piccoli e spensierati: un periodo meraviglioso della nostra vita».
Dal 7 ottobre 2023, tutto è cambiato. Quel giorno Omri era nella stanza blindata con la moglie e le figlie, Roni e Alma. Dopo ore di assedio, sembrava che il peggio fosse passato: aveva perfino mandato un messaggio rassicurante ai famigliari. Ma i terroristi erano tornati e lo avevano portato via, lasciando dietro di sé la moglie e le figlie.
Due sole volte, in quasi due anni, la famiglia ha avuto sue notizie: «Hamas ha diffuso due video, uno nell’aprile 2024 e uno quest’aprile. Ma sono solo gocce nel mare. Nel primo minuto provi una felicità immensa nel vederlo vivo, ma subito capisci che non sai nulla di più: dove sia, come stia, se sia malato. Nel secondo video, per il suo compleanno e pochi giorni prima del mio, gli hanno dato una candela su una torta. Non credo che l’abbia potuta mangiare. In ogni caso, è stato terribile vederlo così, solo, vittima del cinismo dei terroristi».
L’assenza di Omri pesa nei momenti più semplici. «L’anno scorso mio fratello Nadav ha preso una nuova casa. Ci ha detto: “Venite tutti”. Siamo quattro fratelli: Nadav, Boaz, Omri ed io. Siamo andati in tre, e l’assenza di Omri si sentiva. Non potevamo nemmeno fare una semplice telefonata per chiedergli di venire. È straziante».
Un vuoto che diventa ancora più doloroso quando pensa alle figlie di Omri. «La più grande, Roni, lo conosce, perché aveva due anni, ma la piccola, Alma, aveva sei mesi. Quando Roni ha compiuto quattro anni, ha detto alla madre: “Voglio papà”, la sorellina è andata a prendere il poster di Omri. Ecco la differenza tra le mie due nipoti: una conosce il padre, l’altra lo conosce solo in foto. E non scatti felici dell’album di famiglia, ma ritratti da ostaggio, di una persona scomparsa che deve essere riportata a casa».
I momenti in cui il peso si alleggerisce sono quelli con le altre famiglie dei 50 rapiti ancora a Gaza. «Non vado nei centri commerciali, non faccio shopping, perfino per la spesa vado solo in un piccolo negozio dietro casa. All’inizio mi invitavano: “Vuoi venire? Dobbiamo incontrarci”. Io rispondevo: “Solo in piazza degli Ostaggi, a Tel Aviv”. È l’unico posto in cui riesco a respirare. Ma è un respiro molto corto».
Naama sa che parte del mondo è con lei, ma che in molti hanno dimenticato l’orrore dei massacri di Hamas. «Molti sono con noi, ma tanti hanno già cancellato cosa è successo il 7 ottobre. Quel giorno è accaduto davvero: non è un sogno, è un incubo. I terroristi non hanno chiesto chi eri o in cosa credevi. Hanno rapito israeliani, nepalesi, thailandesi, beduini. Sono entrati, hanno ucciso, violentato, bruciato, persino bambini. Voglio che il mondo ricordi».
In questo impegno, un ruolo speciale lo hanno avuto e continuano ad averlo le comunità ebraiche nel mondo. «Sono straordinariamente presenti e attive» sottolinea Naama. «A Chicago, ad esempio, un gruppo è venuto in Israele per ascoltare mio padre parlare di Omri. Alla fine, una donna ha detto a mio padre: “Omri è a casa mia”. Mio padre le ha chiesto cosa intendesse, e lei ha risposto: “Gli abbiamo riservato un posto a tavola: un piatto, una forchetta, un coltello, un bicchiere. Ha sempre un posto con noi, a casa nostra”. Non potevamo crederci».
«Dal primo giorno so, e ne sono sicura, che Omri tornerà a casa sulle sue gambe e non ci sono altre opzioni» prosegue. «Ma sono stanca. Il dolore mentale che viviamo come famiglie si sta trasformando in sofferenza fisica: la gente si ammala, si spezza il cuore, alcuni muoiono di crepacuore. Questa tragedia non riguarda solo Israele, ma anche un’organizzazione terroristica che deve capire che ciò che ha fatto è sbagliato e non può essere premiato».
Sul come riportare suo fratello e tutti gli ostaggi a casa Naama sottolinea di non avere le informazioni per decidere la soluzione migliore. «Ma so che non c’è più tempo. Non possiamo sprecare quello a nostra disposizione. È tempo di agire, rimboccarsi le maniche perché noi famiglie dei rapiti non possiamo più sopportare oltre. E soprattutto i nostri cari a Gaza non possono.
Non serve parlare di strategie o politica: queste persone sono la nostra gente. Questa storia deve finire per permetterci di guarire e ricostruire. Finché gli ostaggi non torneranno, non sarà possibile».

Daniel Reichel