Gli ebrei dell’estate Usa

Ogni estate, alla chiusura delle scuole, negli Stati Uniti migliaia di bambini e ragazzi ebrei prendono la via del campo estivo. Al Jewish Summer Camp si fa sport, ci si diverte, si trovano nuovi amici e spesso ci si innamora. Soprattutto, si sperimenta in prima persona cosa significa essere ebrei nel mondo d’oggi. Da New York al Wisconsin alla California, il campo estivo è uno snodo cruciale nella costruzione dell’identità ebraica americana e un rito di passaggio per intere generazioni.
È un’esperienza che chi in Italia ha frequentato i campeggi ebraici del Benè Akiva o dell’Hashomer Hatzair conosce bene – un mix inebriante in cui la tradizione diventa vita vissuta e condivisa con i coetanei. Senonché, nel caso degli Stati Uniti, i numeri sono vertiginosi. In base a una stima della Foundation for Jewish Camp (FJC) almeno 180 mila bambini e ragazzi, dalle elementari al college, partecipano ogni anno a un campeggio diurno o residenziale.
In termini educativi, l’impatto è notevole. Un sondaggio del Pew Research Center realizzato nel 2020 mostra che il 40 per cento degli americani con un’educazione ebraica ha frequentato un Jewish summer camp. E la partecipazione è in crescita costante, sostiene la FJC. Solo fra il 2021 e il 2022, gli iscritti sono aumentati del 13 per cento. In altre parole, i tempi cambiano ma la formula nata nel secondo dopoguerra regge la sfida.
I campi estivi si diffondono negli Stati Uniti fra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando gli ebrei raggiungono un nuovo benessere. La migrazione dai centri delle città ai sobborghi residenziali si intensifica ma, mentre le condizioni di vita migliorano, aumenta l’isolamento dalla comunità ebraica. Molti bambini iniziano a frequentare le scuole pubbliche. L’inglese prende il posto dello yiddish, la frequentazione delle sinagoghe si riduce e i matrimoni “misti” aumentano.
L’identità ebraica e il senso d’appartenenza non sono mai stati così minacciati e il Jewish Summer Camp nasce come strategia di sopravvivenza, spiega la storica Sandra Fox in The Jews of Summer, il libro che nel 2023 le è valso il National Jewish Book Awards. «Il campo estivo», scrive, «era un esperimento controculturale, uno spazio sacro che cercava di salvare l’identità ebraica dalle pressioni dell’assimilazione americana non con il senso di colpa o il dogma ma con la gioia».
Allora come oggi, per mezza giornata o intere settimane, i partecipanti si immergono in una vita ebraica piena e coinvolgente. Ci sono balli, canzoni, sport. Momenti di studio e preghiera. E poi alzabandiera, spettacoli e falò. I madrichim sono giovani, spesso poco più grandi degli iscritti. Molti sono cresciuti e maturati in quell’esperienza, tanti arrivano da Israele.
«I campi estivi ci ricordano che la vita ebraica non deve essere ereditata in modo passivo. Può essere vissuta a voce alta, con creatività, insieme», scrive Fox. Gli accenti variano. I summer camp sionisti si concentrano sul legame con Israele: si approfondisce la conoscenza del paese, si canta in ebraico, si imparano i balli popolari. Quelli a matrice socialista accentuano i temi della giustizia e sull’esilio. In altri ancora, il focus è sull’yiddish e il suo portato culturale.
Luoghi come Camp Ramah, Habonim Dror o Young Judea diventano così un’esperienza che salda le generazioni. Le celebrities che in gioventù hanno frequentato i Jewish summer camp non si contano. Bob Dylan impara a suonare il piano, la chitarra e l’armonica a Camp Herzl a Webster, Wisconsin; Neil Diamond s’innamora della musica folk al Surprise Lake Camp a Cold Spring, New York, un campo estivo storico frequentato anche dallo scrittore Joseph Heller e da Larry King. L’attrice Natalie Portman frequenta lo Stagedoor Manor, specializzato in teatro, insieme ad altre future star come Ben Platt e Beanie Feldstein; l’attore Seth Rogen trascorre le estati a Camp Miriam del movimento Habonim Dror. Lo stilista Ralph Lauren cresce a Camp Massad sulle Pocono Mountains in Pennsylvania. Quanto a Sheryl Sandberg, già direttore esecutivo di Facebook, ha spesso parlato dell’importanza del campo estivo nella sua formazione ebraica.
Si tratta di una memoria collettiva che presto diventa parte della cultura pop. La commedia Wet Hot American Summer (2001), nato dalle esperienze a Camp Wise e Camp Modin dei registi David Wain e Michael Showalter, è ormai un classico. Ma il tema filtra in infiniti film per mano di registi e sceneggiatori che hanno frequentato un campeggio ebraico. E torna nel recente The Floaters (2025) diretto da Rachel Israel e in Nobody wants this, la serie Netflix di strepitoso successo in cui Adam Brody si cala nei panni di rabbino. Senza dimenticare che l’estate ebraica non si esaurisce con i ragazzi ma chiama in causa intere famiglie.
Per un assaggio di quella realtà ecco allora Dirty dancing (1987; foto in alto), ambientato in un resort per famiglie sulle Catskills (il luogo di vacanza preferito dagli ebrei di New York nel Dopoguerra) dove gli adolescenti la fanno da padroni. E, in tempi più recenti, la serie La fantastica Signora Maisel, anch’essa ambientata in un resort per adulti, che ci riporta agli anni in cui il Jewish Summer Camp vedeva la luce – quando essere ebrei in America era carico di speranza e stare insieme un divertimento indimenticabile.

Daniela Gross