MAROCCO – Da Rabat a Marrakesh, storie di un ritorno israeliano

Quando Neta Hazan, 39 anni, è uscita dalla stazione di polizia di Rabat stringendo la sua nuova carta d’identità marocchina, si è commossa fino alle lacrime. «Avevo realizzato un sogno: diventare cittadina marocchina», ha raccontato Hazan a Ynet. Nemmeno l’indicazione, accanto al suo nome, del luogo di nascita come “Al-Quds, Palestina” al posto di “Gerusalemme, Israele” ha scalfito la sua emozione. «Nessuno poteva rovinarmi la gioia di quel momento», ha spiegato alla giornalista Meirav Weiss.
Hazan è parte di un gruppo eterogeneo ma crescente di israeliani che negli ultimi anni hanno scelto di trasferirsi in Marocco, spesso dopo aver riscoperto le proprie radici familiari. Non si tratta di un movimento organizzato, racconta Weiss in un lungo reportage, ma di un fenomeno che coinvolge imprenditori, artisti, accademici e professionisti di seconda generazione marocchina. Un ritorno che intreccia nostalgia e ricerca di appartenenza, e che la guerra in corso non ha interrotto. Anche se il 7 ottobre 2023 – con il massacro di Hamas e l’inizio della nuova guerra a Gaza – ha reso ancora più complesso e delicato il vivere da israeliani in Marocco.
Il ritorno alle radici
Già prima della normalizzazione dei rapporti diplomatici, siglata nel dicembre 2020 con gli Accordi di Abramo, molti israeliani di origine marocchina avevano iniziato a cercare le tracce delle proprie famiglie nel regno di Mohammed VI. Con l’apertura di voli diretti, nuove opportunità economiche e collaborazioni culturali, il processo ha preso slancio. Un passaggio esemplare è stata la visita a Rabat del presidente della Knesset Amir Ohana, figlio di ebrei marocchini, che nel giugno 2023 è diventato il primo leader del parlamento israeliano a essere accolto ufficialmente in un paese musulmano. «Essendo figlio di genitori marocchini, sono stato imbevuto fin da piccolo della lingua, della cultura, delle canzoni e dei sapori del regno del Marocco. Tutto questo scorre nelle mie vene e mi scalda il cuore», aveva raccontato visitando il parlamento marocchino e la sinagoga di Rabat.
Sotto i re del Marocco
Il legame tra il Marocco e l’ebraismo ha radici profonde. Per secoli il regno ha ospitato una delle comunità ebraiche più numerose e vitali del Nord Africa: prima del 1948 gli ebrei marocchini erano circa 270mila. Nel giro di pochi decenni, a causa delle tensioni in Medio Oriente e delle nuove opportunità aperte dalla nascita dello stato ebraico, oltre 250mila emigrarono in Israele, soprattutto tra gli anni Cinquanta e Settanta, contribuendo a creare una delle diaspore più grandi e influenti del paese. Oggi in Marocco restano poche migliaia di ebrei – comunque la comunità più cospicua del Nord Africa –, mentre in Israele la comunità di origine marocchina supera il milione di persone.
In merito ai rapporti con Israele, negli anni Sessanta re Hassan II agevolò un contatto, fornendo registrazioni riservate della Lega Araba che aiutarono Gerusalemme a prepararsi alla Guerra dei Sei Giorni. Negli anni degli Accordi di Oslo furono avviati rapporti diplomatici ufficiali tra i due paesi, poi congelati con la seconda intifada. La normalizzazione del 2020 ha segnato la riapertura di quel canale, permettendo oggi un rafforzamento dei legami politici, economici e culturali.
La giornalista e il comico
Tra chi ha cercato un nuovo inizio in Marocco c’è Chen Elmaliach, 41 anni, trasferitasi a Casablanca con la figlia. Giornalista ed esperta di musica, racconta a ynet di aver trovato nel regno «profumi, colori e melodie» che le sono famigliari e che sente parte del suo Dna. Dopo il 7 ottobre ha temuto per la famiglia rimasta in Israele, ma al tempo stesso ha ricevuto attestati di solidarietà dagli amici marocchini. «Il Marocco è diverso. Qui riesco a vivere la mia identità senza doverla giustificare».
Più a sud, a Marrakech, ha invece messo radici Pini Peretz, 47 anni, comico con milioni di visualizzazioni online. I suoi spettacoli hanno attirato pubblico e attenzioni, ma anche episodi di ostilità legati alla guerra a Gaza. Una volta, dopo un’esibizione, ha trovato una bandiera palestinese appesa alla sua auto. «Mi sento comunque al sicuro: parlo l’arabo marocchino e so gestire le tensioni», ha sottolineato Peretz.
Per Eran Lerman, vicepresidente del Jerusalem Institute for Strategy and Security, fenomeni come questi non vanno letti solo come storie individuali, ma come parte di un quadro più ampio: «Il rapporto con il Marocco è unico. Non riguarda soltanto la cooperazione strategica e militare, ma anche la dimensione identitaria, che affonda nella storia della diaspora marocchina. Nonostante la guerra, questo legame mostra resilienza e può diventare una piattaforma per una più ampia cooperazione regionale e africana».
(Nell’immagine, il presidente della Knesset Ami Ohana in visita alla sinagoga di Rabat nel giugno 2023)