LIBRI – Ricostruire il passato, recuperare un patrimonio. In un solo volume
Grazie alla straordinaria curatela di Flavio Dalla Vecchia, Queriniana ha pubblicato Il Nuovo Testamento letto dagli ebrei, edizione italiana del monumentale lavoro di un’equipe di studiose e studiosi ebrei coordinati da Marc Zvi Brettler e Amy-Jill Levine, che hanno dedicato la propria vita accademica a tentare di depurare la lettura biblica dalle tendenze razziste, omofobe, misogine, che ogni epoca porta inevitabilmente con sé.
Lo studio comprende una nuova traduzione dei quattro Vangeli e di tutta la letteratura cristiana (Lettere di Paolo, di Pietro, di Giovanni, La Lettera di Giuda e l’Apocalisse di Giovanni) sempre preceduta da una nota introduttiva e accompagnata da un apparato di note, che, verso per verso, ricostruisce l’ambiente ebraico in cui si collocava la predicazione di Gesù.
In aggiunta, quasi novanta box tematici con ogni tipo di rimando ad altre fonti testuali, che vanno dalla Torah stessa, a Filone d’Alessandria, ai rotoli del Mar Morto, ai Targumim (la Bibbia in aramaico), fino al Talmud e al Midrash. Ma, sicuramente, dimentico qualcosa, tanto sono ricchi e fitti i rimandi.
C’è, poi, una seconda parte del volume che comprende 54 saggi in cui si affrontano i nodi più problematici del rapporto fra ebraismo e cristianesimo, da una parte e dell’altra.
Dai temi della legge, della circoncisione, a quello del prossimo, fino al rapporto fra la parola di Gesù e la Torah e alla Birkàt Ha-Minim, la berakà contro gli infedeli, che è stata interpretata come maledizione contro i cristiani. Oltre l’indubbio valore accademico di un lavoro che spazia dall’ebraico, al greco, al latino senza soluzione di continuità, ve n’è uno culturale assai più ampio, in quanto il testo va a rileggere il passaggio decisivo in cui si costruisce un universalismo occidentale contrapposto a quello che di lì in poi sarebbe stato definito particolarismo ebraico.
È qui che nasce l’immagine dell’ebreo vendicativo, chiuso in se stesso, indifferente alla sorte degli altri, che è periodicamente riemersa nella storia europea e che scandisce anche le cronache quotidiane del conflitto in corso, dove si è visto riesumare i peggiori stereotipi antigiudaici, fino agli ebrei assetati del sangue dei bambini e al «Davide discolpati!», che si chiede ad ogni ebreo che offra una narrazione del conflitto diversa rispetto alla ricezione acritica di quella offerta da Hamas. Il merito di questo studio è recuperare, dopo secoli di ellenizzazione imperante, l’anima semitica del cristianesimo e della stessa predicazione di Gesù.
Tornare idealmente in quel punto, dove cristianesimo ed ebraismo si sono separati. Dove la letteratura cristiana non è più stata percepita come ebraica e la letteratura ebraica non è più stata percepita come cristiana. Siamo, inutile dirlo, nel solco di quella decisiva esperienza teologico-culturale che è stato il Concilio Vaticano Secondo, che, e la cosa secondo me ha una sua rilevanza visti i tempi che corrono, ancora non ha ricevuto una risposta del rabbinato europeo.
Lo studio di questo volume può, per certi versi, essere una base di partenza per tracciare delle linee di continuità che il tempo sembra aver inesorabilmente sotterrato. Con danno per l’una e per l’altra parte. Per l’Europa cristiana, con la perdita di un infinito patrimonio culturale che ha contribuito in maniera decisiva alla formazione della sua identità.
È nota la frase di Jorge-Luis Borges, secondo cui dobbiamo la modernità a quei quattro ebrei che sono Einstein, Freud, Kafka e Spinoza (c’è anche la versione che sostituisce Kafka con Marx); per l’ebraismo, beh, non serve neppure dirlo visto che su questa cesura si è innestato il progetto di sterminio nazista.
Davide Assael